Orchestra Piazza Vittorio
Teatro Olimpico, Roma 8.11.2015
Sono trascorsi quasi dieci anni dall’ultima volta in cui ho ascoltato l’Orchestra di Piazza Vittorio dal vivo; ricordo che accadde al cinema Sacher, durante quello che viene dallo stesso ensemble definito un cine-concerto, ossia una perfomance prima e dopo la proiezione dell’omonimo documentario di Agostino Ferrente che così tanto ha contribuito a un loro riconoscimento presso nicchie di pubblico più ampie.
Prima ancora, all’incirca nel 2003 - un anno dopo la formazione dell’Orchestra - ricordo di averla sentita in un centro sociale a Roma Nord Est: le sedute erano libere, così come il contributo per l’ingresso. All’epoca rimasi letteralmente folgorato dalla ricchezza sonora che proveniva dal palco e mi sentii investito da un’emozione inedita e intensissima: era come ascoltare il suono del mondo, tutto insieme, concentrato in un unico posto, nello stesso momento. Ricordo di aver pensato che sarebbe stato molto difficile tenere insieme anime musicali così dissimili, storie personali così diversificate per cultura di provenienza e con ogni probabilità accomunate soltanto dal fatto di avere vissuto trascorsi difficili, ai margini dei paesi che li avevano accolti, ultimo fra questi, la nostra Italia.
Considerai di essere stato fortunato ad assistere a un evento musicale straordinario, che difficilmente si sarebbe potuto ripetere negli anni a seguire: un esempio di World Music che non si limita alla reinvenzione di specifici linguaggi geo-musicali, ma prova a sintetizzarne uno nuovo, una sorta di esperanto del suono, nato dall’incontro di tradizioni diverse.
Oggi, dopo circa tredici anni, posso felicemente constatare che mi sbagliavo: non solo l’Orchestra di Piazza Vittorio è ancora in attività, ma ha avuto anche modo di affermarsi nel panorama internazionale, grazie a tournèe che l’hanno portata in tutti i continenti. Come una sorta di ambasciatore universale dell’umana fratellanza attraverso la musica, il microcosmo formatosi nel quartiere Esquilino è partito dalla Capitale alla volta del mondo, esibendosi in concerti a tema, ma anche interpretazioni del genere operistico, come Il flauto magico di Mozart.
Quella dell’otto Novembre 2015 è l’ultima data al Teatro Olimpico della Carmen di Bizet secondo l’Orchestra di Piazza Vittorio. La vicenda dell’avvenente zingara è inserita all’interno di un picaresco gruppo di girovaghi, musicisti, sfaccendati e truffatori; ciò facilita il compito di alcuni dei componenti dell’orchestra di sganciarsi da un ruolo prettamente musicale e lanciarsi in una dimensione a loro meno congeniale, ossia quella teatrale, interpretando sia personaggi di contorno che ruoli principali, come quelli dell’innamorato Josè, del torero Escamillo o del sergente Zuniga. A sostegno della narrazione, due fidanzati che osservano e commentano, svolgendo una funzione di coro: il baritono Dario Ciotoli e la soprano albanese Hersjana Matmuja. Al centro, una Carmen dei nostri giorni, sensualmente androgina, interpretata dalla sorprendente Mama Marjas, giovane talento partito dal reggae sound system salentino, che ha già all’attivo due cd e collaborazioni con Paolo Fresu e 99 Posse, fra gli altri. L’interprete pugliese stupisce per la sicurezza nell’affrontare il palco, ma anche nell’attualizzare il personaggio, traducendo in francese le molteplici sfumature black di cui è capace la sua voce, particolarmente densa e scura. Il recital operistico scorre piacevolmente, alternando momenti intensi e coinvolgenti, ad altri in cui la messa in scena rivela i limiti di un’interpretazione che, seppur volenterosa, è prevalentemente di stampo musicale, e finisce inevitabilmente per inciampare in qualche vuoto narrativo; anche i costumi e alcuni elementi della scenografia non agevolano più di tanto il difficile compito di rendere credibili come attori un gruppo di musicisti. Eppure, la Carmen secondo l’Orchestra di Piazza Vittorio conquista per l’attualità degli arrangiamenti curati da Mario Tronco e Leandro Piccioni, e per la spontaneità della proposta: ognuno degli interpreti canta nella sua lingua d’elezione, come a consolidare l’idea di fondo del progetto, ossia il mix dei linguaggi e il dialogo fra culture diverse.
Terminato lo spettacolo, l’ultimo applauso della platea, così come di tutti i protagonisti sul palcoscenico, è per Mario Tronco, direttore musicale e principale artefice dell’Orchestra. Dopo la felice esperienza come tastierista degli Avion Travel, Tronco ha intuito le enormi potenzialità artistiche e sociali di un progetto musicale unico, quello, appunto, dell’orchestra multietnica; e lo ha fatto in Italia, in una città come Roma che, sebbene già investita da tempo dall’immigrazione, sta ancora elaborando le modalità in cui è possibile trasformare tale fenomeno in una ricchezza per la collettività. E lo ha tenacemente perseguito, a partire dall’idea iniziale, passando per la ricerca e la selezione dei musicisti, la concezione di soluzioni musicali adatte, la gestione non facile di un gruppo così eterogeneo, fino ad arrivare al limite di una vera e propria assistenza sociale nei casi di maggiore necessità. Se l’Orchestra di Piazza Vittorio rappresenta un simbolo esemplare di globalizzazione virtuosa made in Italy, lo si deve soprattutto a lui.
E chissà se non sia già arrivato il momento di radicarsi ancor di più, diventare glocal; allora, dopo Mozart, dopo Bizet, forse sarebbe giusto confrontarsi con un’interpretazione di un’opera italiana. Rossini? Puccini? Verdi? Per ora non è dato conoscerlo, ma sono sicuro che Mario Tronco saprà, ancora una volta, fare la scelta giusta.
Antonio Catalano