I filosofi e la musica: G.Anders e H.Arendt
Non ho parole!
La musica sta al di là o al di qua dell’esprimibile? Naturalmente c’è musica e musica e espressione e espressione, ma che nella musica ci sia qualcosa, un nocciolo impenetrabile, un fondo duro, che non può essere verbalizzato, è una sensazione assai diffusa.
Sembra che la musica sia come il tempo (e del resto la musica è anche tempo), quel tempo di cui Agostino diceva: “Che cosa è dunque? Se nessuno me lo chiede, lo so bene. Ma se dovessi spiegarlo a chi me lo domanda, non lo saprei.” Il tempo lo capisco interiormente, lo sento dentro e grazie alla mia coscienza, ma non chiedetemi di condividerne il significato, perché proprio non ce la faccio. Supera, trascende, è oltre le mie parole. É questo il senso del celebre passo delle “Confessioni”.
Eppure sono secoli che gli uomini parlano del tempo e della musica per quell’immane lotta che hanno ingaggiato tra la realtà che sfugge e il desiderio di fermarla. E a nulla vale, contro questa tensione classificatoria, la raccomandazione mistica di Ludwig Wittgenstein secondo cui “quanto può dirsi, può dirsi in modo chiaro, e su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”.
Una filosofa che aveva un’immensa fiducia nelle possibilità espressive del linguaggio è stata invece Hannah Arendt. Lo dimostrò dando voce alla realtà indicibile dell’Olocausto, cercando di capire quell’orrore che sembrava al di là di ogni comprensione. Trovò invece le parole per raccontarlo e per nominarlo.
Ci credeva a tal punto, nel linguaggio, che una volta si stupì del fatto che suo marito, Gunther Anders, più a dentro di lei nelle cose musicali, non riuscisse a spiegarle con parole chiare e precise il senso di un concerto che avevano ascoltato insieme. Così Anders, molti anni dopo la rottura del matrimonio con Hannah, ricorda quell’evento: “abbiamo sentito Schnabel suonare il breve pezzo dialogico in mi minore del concerto in sol maggiore di Beethoven. Non so più se il suo grande stupore fosse dovuto alla sua interpretazione o al dialogo tra orchestra e pianoforte, o a Beethoven, che ha fatto dialogare i due in questo modo. Sulla strada di casa mi chiese cosa effettivamente si fossero comunicati i due. Quando ammisi di conoscere questo dialogo sin dall’adolescenza grazie alle esecuzioni di mio padre e anche che credevo di capirlo, ma che non ero comunque in grado di rispondere alla sua domanda, la delusi così profondamente; non, non mi credeva, perché confidava in modo così assoluto nella lingua da non credere che non si potesse esprimere tutto con essa” (La battaglia delle ciliegie. La mia storia d’amore con Hannah Arendt, Donzelli, 2012, p.5).
Stefano Cazzato