I filosofi e la musica: Gilles Deleuze
Effetti fluttuanti
Ci sono filosofi che si occupano della musica in modo estemporaneo (abbiamo visto succedersi in queste pagine storie di ascolti e passioni, commenti e ricordi, contaminazioni e digressioni estetiche). E ci sono filosofi che se ne occupano in modo teorico e organico, studiando forme e strutture musicali per ancorarvi un progetto filosofico più complessivo.
Tra questi figura, e con un ruolo di primo piano, il francese Gilles Deleuze che sul finire degli anni Settanta, insieme con l’amico Felix Guattari e con il direttore d’orchestra Pierre Boulez, dibatté molto di musica e tenne all’università corsi sollecitati da studenti interessati alle avanguardie e alle sperimentazioni musicali di quegli anni fecondi e creativi.
Ecco un passo-documento di quella stagione molto interessante. “Certi musicisti contemporanei hanno portato fino in fondo l’idea pratica di un piano immanente che non ha più un principio di organizzazione nascosta, ma in cui il processo deve risultare intelligibile tanto quanto ciò che deriva da esso, e in cui le forme vengono conservate soltanto per liberare delle variazioni di velocità fra particelle o molecole sonore in cui i temi, motivi e soggetti sono conservati solo per liberare degli effetti fluttuanti” (“Conversazioni”, Ombre Corte, 1998, pp.98-9).
Questi musicisti moderni (Reich, Glass, Cage, lo stesso Boulez) sembra che riproducano l’ontologia decentrata di Deleuze, cioè un nuovo discorso sull’essere non più concepito alla maniera dell’albero medievale, radicato, identitario e gerarchico, ma piuttosto come un tubero senza centro (il rizoma), espanso in direzioni imprevedibili, fluido e libero, più Aion che Cronos, interconnesso ancor prima di segnalare e intercettare l’oggetto stesso della connessione. Abbiamo detto segnalare e non individuare; intercettare e non catturare.
Stefano Cazzato