Giuseppe Verdi, Macbeth, Festival Verdi al Teatro Regio di Parma 27 settembre 2018
ALL'OMBRA DI MARIA
Da diverse stagioni il Festival Verdiano, che si svolge intorno a Parma, si sta impegnando per offrire cartelloni assortiti e con artisti selezionati. Purtroppo sconta una storia recente, di un trentennio alquanto irregolare; e, a mio personale giudizio, una visibilità internazionale molto circoscritta.
Da quando Wagner inaugura nel 1876 a Bayreuth il teatro dei propri sogni, quel Festival attira appassionati dai 5 continenti. A Bayreuth io ho visto il mondo, il pianeta Terra, tutte le sue razze principali all'interno di un solo edificio.
Per cui soffro e mi dispiaccio che nel luogo storicamente deputato a rappresentare il maggiore operista italiano, tra i massimi geni assoluti, si sia partiti molto tardi, con una storia travagliata di poco più di un trentennio, e con la scelta limitante di programmare gli spettacoli in una stagione non foriera di quel pubblico internazionale, intercontinentale che il Genio di Busseto merita, su scala planetaria.
Comunque, per restare all’Inaugurazione del Festival, cercherò di riassumere luci e ombre di uno sforzo comunque lodevole.
La versione originale del 1847 è quella scelta; idea interessante, dal momento che dal mitico Macbeth Scaligero 1952 De Sabata/Callas di fatto si creano i presupposti che ridaranno vita a questa opera, precedentemente quasi ignorata, tra il 1874 a Milano e appunto il 1952.
Di fatto la discografia e le scelte teatrali privilegiano al 95-98% la versione rivista per Parigi nel 1865, più incisiva, diretta e crudele. Questa del 1847 è sorella, quasi gemella tanto sono vicine, di un’altra opera, "Attila"", del '46, dove si celebra il mito romantico (iperomantico?) del "Buon Selvaggio" di J.J.Rousseau. Un personaggio fiero e generoso esternamente, che è attraversato da visioni notturne e dubbi che attanagliano la sua coscienza. C’è un co-protagonista: Ezio; acuto, arrogante e provocatorio, anche lui, pur se di campo avverso, romanticamente magnanimo. E una donna, Odabella, ultima discendente delle grandi donne dell’Antica Roma, volitiva, guerriera, tracotante.
Per questo i personaggi di questo Macbeth diciamo che debbono molto a quelli di "Attila"; i protagonisti maschili vengono intercambiati; lì un basso prima e poi un baritono. Qui un baritono prima e poi un basso. Le caratteristiche di Odabella sono le stesse, in partenza della Lady Macbeth, che però, già nel '47 si avvantaggia di un maggiore scavo.
Probabilmente il Verdi 34enne sente certe suggestioni donizettiane e cerca di stare ancora entro il recinto del belcanto classico romantico, magari cominciando già a spingere verso i bordi, insomma "border line". I personaggi sono meno tragici, meno crudeli, certo meno orrorifici della versione parigina dominante. Ma il salto in avanti rispetto ad "Attila" ci sta, pur se non particolarmente audace.
Nelle troppo brevi interviste concesse ai 3 protagonisti si coglie il desiderio di risolvere tutto nel canto e di seguire accuratamente le indicazioni della partitura. Intenzioni lodevolissime, ma realizzate solo in parte: è possibile che a una prima rappresentazione certi dettagli siano un po' mortificati dall’emotività e da un’ umanissima tensione.
Io ho sentito 3 voci di bel volume e colore,consistenti e generose, efficaci nei momenti più drammatici e concitati ma, dovendo comunque restare all'interno del belcanto, ho sentito colorare poco le diverse inflessioni e accenti;come pure il ricorso ai "piani" o "pianissimi", risolto con relativa espressività e concentrazione.
Quindi, belle cose sia da Luca Salsi che da Michele Pertusi, ma la sensazione di una grana vocale un po' "grossier", pur se di presa emotiva immediata. Macbeth è certo una figura piagata e perdente, ma è anche, in diversi momenti dell'opera, ambiziosissimo e arrogante; la conquista del potere gli da alla testa; questa nota di arroganza ci sta in Cappuccilli e in Bruson, solo per fare due esempi;in Salsi la vedo meno. E, parimenti, questa nota di arroganza è anche in Banco, resa meravigliosamente da Ghiaurov, o dal diabolico accento di Ruggero Raimondi: Banco è, deve essere, regale, dal momento che è padre di re. Ci sta ancora l'eco invasato dello Zaccaria di Nabucco e dell'albagia aristocratica di Silva in Ernani. Pertusi batte bene sul nobile sentimentale, ed è efficace; ma sembra più il Conte Rodolfo in Sonnambula, o il Giorgio dei Puritani.
Quanto ad Anna Pirozzi, come colore e volume ci siamo, ma attenzione agli acuti presi di forza, certamente consistenti, ma piuttosto asciutti, tesi,"di nervi". Nella scena del Sonnambulismo ha una bella idea, quella degli occhi sbarrati, tiene bene i piani e ne esce fuori con grande dignità.
Ci sta poi l'idea, secondo me un po' maligna, a danno della Pirozzi, di far leggere il recitativo della prima aria "Nel dì della vittoria", a una bravissima voce fuori campo, che imposta benissimo il tono misterioso, soffocato e sinistro. Solo che quando comincia a cantare la nostra soprano, queste qualità meravigliosamente introspettive della bravissima lettrice, quasi scompaiono.
Maria Callas, greca, naturalizzata americana, diciamo italiana di adozione, ne dà nel '52 una lettura paradigmatica. Verdi visita i manicomi per realizzare la sua Lady; che deve esprimere la dissociazione tipica di quelli che banalmente chiamiamo matti, che hanno lampi di genio e visioni future esaltanti, e crolli autodistruttivi devastanti. Si dice che la grande Maria con gli anni affinasse le sue interpretazioni sempre più maniacalmente. A me questa del '52 basta e avanza: il suono è un mono di qualità al massimo discreta; ma per me c’è già tutto: e ci vedo mille colori, la vita portata in palcoscenico,appunto l'esistenza di una matta bipolare esaltata. Ma viva come non mai.
E credo che anche De Sabata non abbia del tutto compreso cosa stava per accadere di lì a poco nella storia della musica e della interpretazione musicale.
Certamente la Shirley Verrett ha scritto anche lei pagine splendide, in un’ottica più sfumata, forse anche più livida e ambigua. La Pirozzi regge il 50% del personaggio. Ed è già molto, forse oggi il massimo, o quasi. Comunque brava.
Note molto buone per l'ottimo coro e per l'orchestra, pur con qualche debolezza sui fiati. La direzione di Philippe Augin è in sintonia con questa prima edizione del lavoro. Ci sono pagine splendide e altre meno;la tensione intermittente è nello spartito. Ma Verdi è sincero, di fondo; e non fa il largo uso di "riporti" di "zavorra riempitiva", di riciclaggio da altre opere come spesso, troppo, accade in Donizetti. Consistenti contestazioni alla regia di Daniele Abbado, secondo me forse un po' troppo essenziale, pur con alcune buone idee.
Uno spettacolo comunque da vedere, non solo per gli appassionati.
Pensiero finale: è vero che a Verdi, come a Wagner, a Mozart, a Puccini, a Bellini, il Festival lo fanno sempre in tutti i grandi teatri del mondo. Ma perché non fare il "salto"? Senza pretendere di arrivare subito al livello planetario di Bayreuth, sarebbe improponibile...ma almeno, provarci, cominciare?
Domenico Maria Morace.
Macbeth - LUCA SALSI, Lady Macbeth - ANNA PIROZZI, Banco - MICHELE PERTUSI
Maestro concertatore e direttore - PHILIPPE AUGUIN
Regia - DANIELE ABBADO
Maestro del coro - MARTINO FAGGIANI
FILARMONICA ARTURO TOSCANINI
ORCHESTRA GIOVANILE DELLA VIA EMILIA
CORO DEL TEATRO REGIO DI PARMA