Chicago: Transizione e Permanenza
Il gruppo The Chicago Transit Authority, successivamente chiamato solo Chicago, a causa di una diatriba legale con l’omonima compagnia di trasporti della metropoli statunitense, è, senza alcun dubbio, la formazione che ha connotato la propria cifra stilistica, al pari dei Blood Sweet & Tears, di un’originale ed intrigante trasversalità fra generi e forme musicali. In attività dal 1967 a tutt’oggi, la band ha attraversato cinque decenni della storia musicale del loro Paese, vendendo nel mondo oltre cento milioni di dischi.
Definiti agli esordi quale band di Rock and Roll coi fiati, si posero all’attenzione del grande pubblico per il tratto sperimentale di una chimica collettiva rivolta anche agli eccessi del Progressive ed alla libertà formale del Jazz. Gli anni Sessanta/Settanta sono i più creativi ed originali, a partire dalla pubblicazione del doppio vinile d’esordio “The Chicago Transit Authority” (Columbia 1969) all’album “Chicago XI” (Columbia 1977) pubblicato quattro mesi prima della tragica scomparsa del chitarrista Terry Kath, avvenuta nel gennaio del 1978.
Il nucleo fondatore della band si forma presso la DePaul University della città dell’Illinois intorno a Walter Parazaider (sassofono, flauto, clarinetto), Lee Loughnane (tromba) e James Pankow (trombone), a cui si aggiungeranno in seguito il chitarrista Terry Kath, il batterista Danny Seraphine, il pianista Robert Lamm e, infine, quello che diventerà l’anima del gruppo, Peter Cetera al basso e voce.
Come per il primo disco della band, la supervisione del produttore J. W. Guercio è fondamentale anche in “Chicago II” (Columbia 1970) e “Chicago III” (Columbia 1971), nuovamente proposti in doppio vinile, che raggiungono un sempre più crescente successo di pubblico e critica. Il suono del settetto incuriosisce, affascina e, a mezzo secolo dall’esordio, nel riascoltarne la musica si resta ammirati per la suadenza delle linee melodiche, per la dinamica delle ritmiche, per i perfetti incastri tra gli sfondi corali e gli impeccabili assolo di tutti i componenti della formazione. Per questo l’apoteosi raggiunta nell’imperdibile quadruplo live “Chicago at Carnegie Hall” (Columbia 1972) consacra la band fra le eccellenze internazionali, amate anche dagli ortodossi seguaci delle Blue Notes. Le ance di Walter Parazaider e gli ottoni di Lee Loughnane e James Pankow si alternano al centro della scena, si fondono in un tutt’uno, offrono significativi primi piani, assecondati dalla sontuosa sezione ritmica composta dall’elegante pianismo di Robert Lamm, dal turbinante drumming di Danny Seraphine e dal potente groove del basso di Peter Cetera (autentico collante del settetto). Un discorso a parte va dedicato a Terry Kath che, con la sua chitarra dalle acidità distorte di matrice hendrixiana, propone una discontinuità con il lessico degli storici compagni, trascinando gli stessi verso le tipiche sonorità del Rock.
Tanto per ricordare, la cantabilità di “Beginnings” e la ruvidità di “I ‘m Man” (dal disco d’esordio), l’incalzante incedere di “Hourse” e la ridente atmosfera di “Make Me Smile” (da Chicago II), la complessità ritmica di “Mother” e la forma canzone di “Love Down” (da Chicago III), permettono ad un attento fruitore lo svelarsi delle diversificate e peculiari espressioni della formazione statunitense.
Sono trascorsi tre anni dal primo lavoro dei Chicago e, malgrado la loro musica sia conosciuta ed amata in tutto il mondo, l’apice del successo è ancora al di là dal venire. “Saturday in the Park”, hits incluso in Chicago V (Columbia 1972), “Feelin' Stronger Every Day” e “Just You 'n' Me”, proposti nel sesto album in studio (Columbia 1973) regalano alla band una messe di dischi di platino. Anche i Vol. VII (Columbia 1974), VIII (Columbia 1975), X (Columbia 1976), noto per aver ricevuto un Grammy per la canzone “If You Leave Me Now”, e Vol. XI, fanno parte della travolgente ascesa di un gruppo che non ha conosciuto nei ‘70 alcuna battuta di arresto verso le vette più alte della fama planetaria.
Tuttavia, la tragica e prematura scomparsa di Terry Kath, il divorzio dal produttore James William Guercio, l’affermarsi di nuove tendenze musicali, fanno volgere lo sguardo dei Chicago verso atmosfere Pop che hanno ben poco dell’originaria cifra stilistica degli anni citati. Quello che ancora oggi piace nel riascoltare quei datati lavori è la freschezza degli arrangiamenti: l’epopea dei Beatles è ormai al tramonto, la leggenda Woodstock proietta nel mercato mondiale un ragguardevole novero di stars, l’Hard Rock britannico domina la scena discografica; eppure i Chicago, con il loro robusto sound e gli incastri vocali, si ritagliano un significativo spazio di assoluto rilievo in quel panorama musicale, sia negli States che in Europa.
La dinamica timbrica tipica delle formazioni di stampo Rock e la padronanza tecnico-strumentale del mondo Jazz hanno permesso il prodursi di una fascinosa chimica estetica che ha sempre posto i Chicago fra le band più accattivanti per la loro trasversalità linguistica. La Fusion, genere che troverà una sua collocazione temporale negli ’80, in un certo qual modo era già stato annunciato dal loro groove: pertanto, ai tanti appassionati che hanno riscoperto negli ultimi tempi il vinile (magari recuperando LP da una vecchia soffitta o in una buia cantina) consiglio, come anche alle nuove generazioni di cultori della buona musica, di ascoltare e rinverdire i fasti di una leggendaria formazione fra le più longeve della storia musicale del ‘900.
Francesco Peluso