Franco Zeffirelli: il suo Melodramma e l’ultima “Traviata”. Una (quasi) difesa ragionata.
La morte di Franco Zeffirelli a 96 anni è stata quasi universalmente presentata come la perdita di un artista immenso: la più trivia e becera retorica da talk show è stata ostentata da tutte le principali reti televisive e radiofoniche, con modeste e minuscole eccezioni.
E' ovvio che in tale oceano di ipocrita melassa la voce chiaramente dissonante di Tomaso Montanari da una parte ha offerto ulteriore "carne da azzanno", nutrimento alla polemica, dall'altra ha scatenato la demonizzazione del "monstrum", del "diverso": appunto come nel romanzo di Mary Shelley, dove il "mostro" intende soprattutto non un canone fisso di bellezza o orrore e deformità, quanto un essere troppo diverso dalla regola, dal luogo comune.
Quando nel 1975 Rizzoli pubblica "Il Teatro d'opera in disco" di Rodolfo Celletti, una consistente platea, anche solo di curiosi dell'opera, si trova di fronte a un testo che, frutto di ascolti con spartiti in mano, dice pane al pane e vino al vino, evidenziando in maniera crudele forse, ma musicalmente inappuntabile, le crepe vocali, le incoerenze, le scelte interpretative imposte o discutibili di tutte le grandi voci dal dopoguerra a oggi. Nessuno si salva, a prescindere dal “nome”. [1]
Per un momento mi sembra di essere tornato a quei tempi: Montanari si è assunto il compito di smitizzare il mito, pure se a mia opinione in maniera forse un po' troppo radicale e perentoria.
Zeffirelli è strato un grande e sincero amante del Melodramma, in maniera assolutamente autentica e partecipe. Tale passione è stata certo mutuata soprattutto da Luchino Visconti, a cui rimase legatissimo per un decennio dall'immediato dopoguerra (e a cui, secondo me, ha continuato a guardare fino alla fine, sia pure in maniera più libera, pur con un profondo e incoffessato senso di inferiorità).
Quindi la definizione di "mediocre" o di campione e monumento di mediocrità mi pare oltremodo ingenerosa e avvelenata. C’é una personalità inconfondibile nelle sue regie di Opera: magari si potrebbe dire che si tratta di un "Visconti per le larghe masse”, a teatro come nel cinema, di modelli viscontiani amplificati e dilatati anche, non di rado, oltre la misura e il buon gusto.
Ma che la cifra zeffirelliana sia chiarissima e facilmente riconoscibile è un dato di fatto, inoppugnabile, magari in una logica "globale" per una fruibilità planetaria, da Hong Kong e Tokio fino a New York e la vecchia Europa: una scelta dettata anche da astuzia e opportunismo certamente sì, ma di fondo anche sincera e, per tantissime persone, contagiosa e ammaliante.
Certo la sua "Italianità" è molto addomesticata alla superficie e ad un obbiettivo molto quantitativo:
irrita molto, ad esempio, il fatto che nelle sue opere liriche in Dvd-Blu Ray, come nel suo cinema, c’é una partecipazione quasi inesistente di attori o cantanti italiani.
Il "dettato" internazionale, globale e planetario, ha una precedenza assoluta: e siccome le scelte degli attori e dei cantanti sono spesso scelte di compromesso o di contrattazione, spesso le loro interpretazioni o non convincono o si incrostano a vieti luoghi comuni.
Ovviamente ci sono eccezioni, singole prestazioni molto felici; lo sfondo è sempre magniloquente pur se diabolicamente accattivante.
Un solo esempio tra decine. Guardate la "Carmen" di Rosi in versione cinematografica, o il “Don Giovanni” di Losey, e poi guardatevi “Otello” o “Traviata” di Zeffirelli: la differenza di spessore è sfacciata, spietata. Però quell'”Otello” e quella “Traviata” hanno avuto shares di acquisto e di ascolto enormemente superiori. Tant'è, purtroppo!
Come, ad esempio, la “Traviata” trasmessa su Rai Uno Venerdì 21 Giugno 2019 da Verona, per la regia e le scene di Franco Zeffirelli; al netto, ovviamente, della montagna di melassa e di qualche pagliuzza di prudente correttezza e onestà...ma solo qualche pagliuzza nell'oceano.
Parliamo di Musica, perché prima di tutto Verdi è musica e interpretazione.
Alessandra Kurzak, 42 enne, si muove molto sulla scena e la sua mimica facciale, discreta, ha buoni momenti soprattutto nel terzo atto: ma quanti acuti tesi e metallici! E un’interpretazione spesso querula e piagnucolosa. I confronti con Callas, Scotto e Fabbricini li risparmio, faccio finta di ignorarli: una Violetta volenterosa, con qualche merito nell'ultimo atto. Basta così.
Il Trentaduenne Pavel Petrov ha una voce sana, generosa e squillante: e qui almeno il materiale di base ci sta. Il colore però è piagnucoloso fin dall'inizio, e qui già si stona, perché Alfredo comincia con toni seducenti, luminosi e anche un po' arroganti. Ci sono alcuni buoni momenti nel terzo atto come interprete in uno strumento (o una testa) molto restio a colorare e sfumare. Contentiamoci.
E' invece incredibile il George Germont di Leo Nucci, leggete bene, 77enne (avete capito bene, 77!!!) che possiede nel complesso il personaggio, pur avendo perso molto la fluidità e l’omogeneità vocale del suo migliore periodo. Colora e sfuma poco, ma quando lo fa ancora affascina: e poi questo strumento 77enne con acuti ancora sani, non tesi e di bel peso, mette davvero a mal partito la giovane coppia di protagonisti. I più sinceri applausi per lui durante l'esecuzione, e ancora per lui a fine opera, il "re" della festa.
Ma diciamo che la festa sta anche in piedi per merito della vibrante direzione di Daniel Oren, vero “animale” da teatro live, nel senso migliore del termine. Un teatro ovviamente pensato all'Arena di Verona...in una logica di Arena, nel senso più vero. Forse un po' di Zeffirelli era davvero nell'aria.
Di quel personaggio con cui dobbiamo e dovremo comunque fare i conti, nel bene e nel male.
Domenico Maria Morace.
[1] Rodolfo Celletti, “Il Teatro d'opera in disco", Rizzoli 1975.
Ci sono sinceri e commossi elogi per qualsiasi grande soprano, mezzosoprano, tenore, baritono e basso, ma anno dopo anno si evidenzia in maniera implacabile la corrosione e l'indurimento degli strumenti vocali, e la discutibilità non di rado assai polemica di scelte di repertorio e interpretative.
Puoi chiamarti Callas, Tebaldi, Price, Caballè, Freni...oppure Cossotto, Simionato, Barbieri, Valentini...oppure Del Monaco, Corelli, Bergonzi, Domingo, Pavarotti, Carreras....oppure Gobbi, Bastianini, Cappuccilli, Bruson....oppure Christoff, Ghiaurov, Siepi, Raimondi, solo per una manciata modestissima di celebrità, ripeto, non si salvava nessuno.
Questo per il dettato vocale, da spartito; per quello interpretativo la penna di Celletti è un po' più tollerante, ma neanche più di tanto, pur riconoscendo che ad onta di strumenti vocali corrosi e usurati, molti di questi artisti riescono spesso a essere interpreti verisimili e intriganti.
Ma, ahimè, questo è il lascito di grandissima parte della Lirica: proprio nel momento in cui entri più a fondo nel personaggio, la voce, troppo "stressata"(incoscientemente spesso) in "giovinezza", risponde meno, o molto poco: e, come si diceva di un Otello di Del Monaco a Napoli nel 1975, ci si trovava di fronte a un Otello "delle idee" anche ottime, in uno strumento inesorabilmente compromesso.
Queste verità, audacemente raccontate da Celletti nel '75, diedero slancio al revival delle registrazioni dal vivo anni '40/'50, di qualità variabilissima ma, non "truccate", mai o quasi; e a un fiume di polemiche.