Maria Callas. La fatal Roma: intimità e mito
Poco prima del cataclisma Covid, nello scorso autunno Rizzoli dà alle stampe il nuovo libro di Tom Volf, costato oltre 5 anni di faticose indagini agli angoli del mondo, per recuperare quanto più possibile dell’epistolario della Callas, sia in originale italiano, esattamente trascritto e riportato, che in traduzioni estremamente fedeli, controllate dall’autore, di passi in Greco, in Inglese, in Francese e qualcosa in Tedesco. Titolo ”Maria Callas. Io, Maria. Lettere e Memorie inedite”.
Con queste lettere si viaggia in un altro mondo, appunto quello di Maria, sempre, di cui Callas è solo una emanazione parziale, appunto la più superficiale e, per questo, la più popolarmente nota.
Viene in mente una frase, di quegli anni 50 di Marilyn Monroe: “Ho creato un mostro”; nel senso che anche in quel caso la dicotomia tra persona e personaggio raggiunge livelli di estrema isteria.
Cominciamo con il dire che ci sono, secondo me, alcuni principali personaggi di cui si fa molto riferimento in queste lettere. Cominciamo con i primi 2 in ordine cronologico: potrei definirli “i due compari”, Tullio Serafin, e Giovanbattista Meneghini. Il primo lo scopritore di questo talento; il secondo, un maturo scapolo industriale, molto benestante, discretamente curioso di lirica (fino a un certo punto), che prima prende la giovane 24enne come amante, poi con lei convive, e dopo parecchi anni la sposa con un rito invero miserabile.
La giovanissima soprano 24enne, che debutta a Verona ad Agosto 1947 come “Gioconda”, già inizia con un ruolo drammatico molto pesante sia come vocalità sia come intensità interpretativa: questo vuole Tullio Serafin come partenza (decisamente audace, in una grande Arena poi!). Di questi primissimi anni si legge di rappresentazioni integrali, ancorché ancora in Italiano, di Valchiria (Brunnhilde), Tristano(Isotta), di Parsifal (Kundry). Tre ruoli monstre del repertorio wagneriano, affrontati da colossi come la Nilsson a non meno di 40 anni, e con 15 anni di carriera alle spalle. Ma Maria, a 25/26, se li può giocare tranquillamente, pensa Serafin.
E questi ruoli monstre sono solo l’assaggino, l’antipasto...abbiamo detto. Come aperitivo Gioconda. Passiamo al Primo, già visto l’Antipasto Wagneriano, pochi nomi, per dare un’ idea: Lucia, Violetta, Norma e, in gloria, Turandot. E siamo sempre intorno al 1950 più o meno, poco dopo i 25 anni. Possiamo passare al Secondo: sbalzi di atmosfere e di canto mostruosi, da Gilda ad Aida, da Abigaille (Nabucco) a Rosina (Barbiere), da Fiorilla (Turco in Italia) a Leonora (Forza del Destino e Trovatore). Tanto, la voce di Maria (“gran vociaccia” dice testualmente Serafin) è d’acciaio, regge tutto.
E così si arriva al ‘53. Esce al cinema “Vacanze Romane”, con Gregory Peck e Audrey Hepburn e….nasce con la Hepburn, la “bellezza-grissino”. Il modello a cui aspirare, l’ ossessione di Maria.
E’ vero, nonostante il metro e 73, parecchio per una donna di allora, ci stavano spesso 80 chili di peso, fino a sfiorare i 90. E Maria era rabbiosamente scontenta del suo fisico e di diversi acciacchi che comportava. Così, a Dicembre 1954 Alceste di Gluck (altra stupenda incursione...ma altro “tuffo con triplo avvitamento carpiato”, a livello vocale): si vede una longilinea signora che ha perso oltre 20 chili. E a Dicembre dell’anno dopo, in Norma abbiamo una quasi silhouette di meno di 60 chili in 1.73 di altezza. Trasformazione compiuta, mito della Hepburn reincarnato!!! (non fossero certi tratti forti del viso e la potenza di certi sguardi!).
Ma qualcuno, qualcosa, “piange” e comincia a “batter cassa”. Il diaframma, che non può più sostenere certi suoni se non con sforzi, calci, e nervi tesi. Dal 1956 cominciano a sentirsi suoni metallici in diversi passaggi e sopra al pentagramma. E Maria ne è perfettamente cosciente con se stessa, anche fino all’autolesionismo (e questo le fa immenso onore).
Ma ora, proprio ora, è divenuta la “Callas Mondiale”, e il personaggio ha preso il sopravvento: ”the show must go on”. E giù con dischi, viaggi internazionali e intercontinentali. Fino a quel fatidico 2 Gennaio 1958 a Roma, di cui diamo ora conto, dalla lettera che riportiamo dal libro di Tom Volf, dettata a caldo da Milano, pochi giorni dopo.
Milano, 14 Gennaio 1958: “Lettera alla Stampa”(dettata dalla Callas che amava poco scrivere).
Parla Maria:
”La più triste serata della mia vita fu preceduta da lietissimi auspici: e questo valga per tutti i “superstiziosi”, che sogliono sempre scorgere presagi fausti o infausti in ogni piccola cosa.
E tuttavia, anche se fossi stata avvezza a dar retta a codesti “Avvertimenti della Sorte” e ne avessi scorti questa volta, di sfavorevoli, molto sfavorevoli, mai e poi mai avrei potuto prevedere l’ondata di crudeltà e di violenza che mi si è rovesciata addosso, dopo quella recita del 2 Gennaio, così dolorosamente troncata.
Sono stata letteralmente linciata: I giornali non soltanto di Roma e di Italia, ma quelli di Europa e d’America - tranne eccezioni che per esser state così rare mi hanno ancor più commossa - hanno messo da parte per uno, due, tre giorni gli avvenimenti di politica internazionale, i guai infiniti che affliggono questa affannata umanità, e hanno dedicato le loro prime pagine, i loro titoli più grandi, le loro cronache più minuziose, al mio povero nome.
Era il momento buono per trascinarlo nel fango: era l’occasione favorevole per farmi pagar caro il successo di tanti anni.
Tutto, dunque, era cominciato bene, addirittura splendidamente. Ero giunta a Roma la sera di Santo Stefano, e l’indomani, a Mezzogiorno, ero andata in Teatro e avevo iniziato le prove: ero felice di tornare, dopo qualche tempo, a cantare a Roma; questo voglio affermarlo chiaramente perché, fra le tante assurdità che si sono scritte nei giorni scorsi, ho letto anche quella secondo cui io avrei considerato il presentarmi all’Opera romana come una “diminuzione”.
Ma come? Io all’Opera ho cantato fin dal lontano 1950 guidata spesso da quel grande musicista e amico che è Tullio Serafin; e ho cantato, da allora, e negli anni successivi Norma (in due edizioni), Parsifal, Turandot, I Puritani, Tristano e Isotta, Lucia, Traviata, Medea, Trovatore, Aida per almeno una sessantina di spettacoli complessivamente; e molte fra le mie serate romane restano, nel mio ricordo, tra le più belle soddisfazioni della mia carriera artistica.
L’Ultimo dell’Anno, Prova generale: cantai la parte a piena voce, tanto che il maestro Santini mi suggerì bonariamente di non impegnarmi a quel modo, ma non gli diedi retta, prima di tutto perché non ho mai accettato di fare le prove generali se non con lo stesso impegno che metto nelle recite, e poi perché amo troppo il personaggio di Norma, e sento troppo il suo dramma per non incominciare a viverlo con ogni mia risorsa vocale, tutte le volte che l’opera viene eseguita atto per atto, da cima a fondo.
La Prova generale finì tra la soddisfazione di tutti. Andai nel mio camerino - un gelido camerino di un teatro, rimasto chiuso e deserto per tanti mesi - e mi struccai. Giravano correnti d’aria, soffiava un vento freddo da molte fessure. Improvvisamente, sentii un brivido, e avvertii i sintomi di un principio di raucedine.
Dopo la sera dell’ultimo dell’anno, era il 1° Gennaio, a Capodanno tutti sono in vacanza, anche in Teatro non c’era nessuno. Alle 13 mio marito, impegnatosi affannosamente, riuscì a trovare un medico, che mi ordinò di fare dei cataplasmi alla gola per vincere l’infiammazione, ormai manifestatasi violentemente. Incominciai a sottopormi al supplizio e continuai per tutto il pomeriggio, fino alle prime ore della sera. Dopo cena, finalmente, arrivò Sampaoli, il Direttore Artistico del teatro, che si era riusciti ad avvertire. “Come stai?” mi chiese: “Male. Forse fareste bene, voialtri, a cercar di sostituirmi. Del resto, senti in che condizioni è la mia voce”. ”Sostituirti? Brava: e con chi? E poi la gente ha pagato per sentire la Callas, sai. C’è poco da fare, bisogna che tu canti.
Dovevo cantare. Mancavano ventiquattro ore ad andare in scena. Inghiottii un sonnifero, e piombai nel nulla: dormii dodici ore di seguito. Quando mi destai (e fui subito ripresa dal mio terrore) provai a emettere un suono, e mi sembrò di cominciare allora a sognare: cantavo! La Voce, la mia voce, era pronta, piena, a mia disposizione. Saltai dal letto in un impeto di gioia: mi misi a pensare alla serata che mi aspettava; mi dedicai ai consueti mille preparativi necessari alla cantante che la sera debba andare in scena: alle due pomeridiane pranzai, mi riposai per una oretta ancora, ma poi compresi quanto era stata fallace la mia speranza, e fugace la mia gioia.
La voce se ne stava andando, di nuovo. Adesso, a cose avvenute, so quel che accadde in quel giorno.
I ripetuti cataplasmi avevano momentaneamente disinfiammato la gola, ma non curato la vera causa del male: una bronchite, che del resto non poteva essere guarita in un tempo così breve. E, anzi, terminato l’effetto di quei palliativi, l’afonia si andava manifestando ancor più preoccupante.
Allora ebbe inizio quel pomeriggio del 2 Gennaio, che rimane tra i più angosciosi della mia vita. Farmi sostituire? Impossibile. Annunziare che lo spettacolo doveva essere rinviato? Non era facile, in un’ occasione come quella: inaugurazione della Stagione alla presenza del Capo dello Stato. Non era meglio che, invece di tante, una persona andasse allo sbaraglio, e cantasse come poteva, mettendo a rischio la reputazione conquista in tanti duri anni di carriera; non era meglio che questa Callas cantasse comunque, come le sarebbe riuscito?
Tanto, si sa, la maggioranza della gente viene a teatro per far sfoggio di eleganza, per passeggiare nei ridotti durante gli intervalli! Così pensò certo più di uno. Io guardavo le lancette dell’orologio che giravano implacabili, provavo la mia voce, che se ne andava a brandelli, e mi sentivo sommergere dalla paura. Non dimenticate, vi prego, che sono una donna.
Poco prima della recita inghiottii un chinino e poi mi feci fare un’iniezione di eccitante, di quelle che, come si suol dire “rimettono in piedi un morto”. Feci come il pugilatore debilitato prima dell’incontro decisivo: usai a me stessa il trattamento che si riserva a certi cavalli che DEVONO vincere la corsa, e poi, magari, stramazzare.
Passato in un qualche modo il Primo Atto, calò il sipario. Vennero a prendermi per trascinarmi alla ribalta. E lo fecero forzando la mia volontà, perché ho troppo alto concetto dell’Arte, e sentivo di non meritare applausi. La gente batteva le mani, e io pensavo, con dolore. “Adesso dovrete tornare a casa, subito”. Poi mi chiusi in camerino.
Allora ebbe inizio la processione di quelli che volevano persuadermi ad andare avanti. “Canta lo stesso, canta in qualche modo, non si può mandare a casa le gente, pensa che ci sta il Presidente della Repubblica; pensa che tanti hanno cantato col mal di testa, con la febbre, con la caviglia slogata”. Ma io dissi di no. E’ vero, si può cantare con la febbre, si può cantare con le gambe doloranti, con la testa che scoppia. Io stessa l’ ho fatto più di una volta. Ma non si può cantare senza voce. Prendete un pianista, dategli un colpo sul capo e, soffocando il dolore, potrà pur suonare. Ma prendete lo stesso pianista, tagliategli le mani, e poi fatelo tornare alla tastiera, se vi riesce.
C’erano il Presidente della Repubblica e donna Carla, in Teatro, è vero. Al Capo dello Stato, che già a Milano mi aveva onorato della sua presenza e con il suo compiacimento, ho inviato una lettera per esprimere il mio profondo rammarico. A me non spettava di fare altro. Se i Dirigenti del Teatro, di fronte alla mia pronta e tempestiva dichiarazione che non avrei continuato, non hanno provveduto ad avvertire il Capo dello Stato nelle debite forme, la circostanza concerne appunto quei Dirigenti. Io non ho offeso Giovanni Gronchi: certo, mi sono ricordata in quel momento che c’era in teatro, oltre al presidente, anche un personaggio degno del massimo rispetto, un personaggio il cui nome era addirittura stampato sui manifesti, Vincenzo Bellini.
Non potevo, per salvaguardare esigenze stabilite dal protocollo, recare offesa al grande musicista, mugolando gli altri atti della “Norma”, anziché cantarli. Così la sera del 2 Gennaio è stato eseguito, al Teatro dell’Opera di Roma, il Primo Atto della “Norma”, in modo non eccelso se volete, ma correttamente. Agli altri atti è stata evitata ogni offesa.
Tornai in albergo con trentotto di febbre. Il giorno dopo mi accorsi che il mio linciaggio era in atto, con violenza inaudita. Eppure, non avevo vilipeso né il pubblico né le Istituzioni, non avevo usato sgarbo al Capo dello Stato, non avevo attentato alla vita del Teatro Lirico Italiano: avevo solo la bronchite. Allora mi ritornarono in mente le parole della “Traviata”, le parole della mia Violetta, che Verdi ha rivestito di una melodia tanto amara: “Così, alla misera che un dì è caduta, di più risorgere speranza è muta! Se pur benefico le indulga Iddio, l’uomo implacabile per lei sarà!…”.
E decisi che non avrei mai più cantato.”
Fin qui il testo originale...ma siamo al culmine della notorietà. L’anno prima conosce a Venezia Onassis; e dal ‘55/56 le citazioni di “Battista”, il Meneghini, si diradano parecchio nelle lettere.
Il 57 è un anno-ponte fortemente contrastato. Come al solito, a tutte le recite a Milano, soprattutto alle Prime, ma anche nelle successive, c’è il fronte anti-Callas, che si incarica di avvelenare ogni recita: viene quasi sempre silenziato dalla maggioranza, ma non molla mai.
Mia personale ricostruzione ipotetica, per quello che percepisco tra le righe di certe lettere.
Nel leggendario concerto di re-inaugurazione della Scala del 46 dopo la guerra e le bombe, diretto da Toscanini, debuttano due giovani promesse: il giovanissimo soprano Renata Tebaldi e il pur giovane basso Cesare Siepi. Grandi protagonisti dell’epoca successiva. Ma, essendo Siepi di fondo un signore riservato e poco esibizionista, quando arriva Ghiaurov nel 60, il nostro, senza far troppo chiasso, se ne va oltre oceano, per tornare solo di tanto in tanto in Italia.
Ma il Sovrintendente Ghiringhelli ha accolto e pienamente condiviso la sentenza di Toscanini che la Tebaldi è “la Voce d’Angelo”. Invero lo era, in quei primi anni (quanto fu sempre assai impacciata come attrice sulle scene, sempre). Non è quindi vero che ci fosse aperta ostilità tra Renata e Maria: forse alcune invidie e rivalità, nel reale, fomentate ed esasperate dal Sovrintendente tebaldiano che creò proprio un fronte di combattimento, con frequenti sgambetti, dispetti e cattiverie varie.
Infine, ultimo dettaglio di questo pezzo (ma ce ne sarebbero altri mille), indipendentemente dal percorso vocale/interpretativo, con moltissime luci splendenti, con qualche ruolo poco sentito, e con qualche passo falso come repertorio. Va detto della tecnica di registrazione HMV/EMI di allora, ben riversata solo negli ultimi 20 anni: non giova molto alla voce della Callas, soprattutto nelle registrazioni in studio. E’ un suono sì sodo e compatto, ma di fondo un po’ duro e tende a prosciugare gli armonici. Mentre nei nastri Decca di quegli anni gli armonici della Tebaldi davvero li restituiscono ancora tutti nella loro ricchezza, anche, per esempio nella Elisabetta del Don Carlo del 65 con Solti, con una Tebaldi accorciata in alto ma con centri e prime note basse ancora rotonde e calde.
Paradosso finale! Sono nastri Decca che avrebbero dovuto figurare come consociata Philips quelli realizzati con Di Stefano a Londra in Studio, nel 69: si possono sentire su Youtube. Le voci sono riprese al meglio, come tecnica di registrazione. Ma è una bella lotta a dire chi dei due è più malconcio. Se fossero state realizzate 15 anni prima!!!
Con tutto ciò, un libro da consigliare con grande calore, dando per scontato un minimo interesse reale per l’argomento. E’ il viaggio dentro Maria: una creatura ricchissima dentro, pur con violenti contrasti.
Resta un Viaggio nel Mito.
Domenico Maria Morace
Io, Maria. Lettere e memorie inedite.
Traduttore: Gustavo Visentini
Curatore: Tom Volf
Editore: Rizzoli
Collana: Saggi italiani
Anno edizione: 2019
555 pp., ill.
EPUB con DRM 10,99 €
Rilegato 19,95 €
EAN: 9788817144049