bill evans - tutta la grazia di bill a metà strada tra una lacrima e un sorriso(ilenia beatrice protopapa)

Bill Evans

“Tutta la grazia di Bill (a metà strada tra una lacrima e un sorriso)”

Di Bill Evans è già stato scritto così tanto e così tanto bene.

La vita o, meglio, l’esistenza di Bill Evans, la sua storia, un tutt’uno con la sua musica. Col suo pianoforte, con il suo intimismo, la sua delicatezza. Il senso di solitudine.

Lo sguardo triste di Bill Evans, le vicende della sua vita strettamente legate alla sua musica.

Un nuovo approccio al pianoforte jazz, uno stile pianistico inconfondibile, palpitante di suoni cristallini. Una rivoluzione in musica, un’innovazione dello stile e dei suoni.

Lo sguardo triste di Bill Evans. I genitori non vanno d’accordo, lì, a Planfiled nel New Jersey, negli anni Trenta e Quaranta. Il padre alcolista, la  madre di origini russe, amante del canto ortodosso, carattere forte, tra William (Bill di soprannome, appunto) e il fratello Harry ha da sempre manifestato una predilezione per Bill. Harry il più grande comincia a studiare per primo il pianoforte, Bill rannicchiato in un angolo ascolta.

Ascolta assorto, Bill, mancino, con due mani stupende pronte già a suonare la tastiera. Bill dallo sguardo triste, ascolta. Ascolta il fratello Harry – poi trombettista di una certa fama, Harry un punto di riferimento per Bill –  al pianoforte suonare. E sarà attraverso il fratello che Bill dallo sguardo triste scoprirà il jazz. È Harry a cui da sempre Bill è legato, tanto che quando Harry nel 1979 in un momento di depressione forte si suicida, Bill gli sopravviverà solo un anno appena. Troppo dolore, la morte dell’anima, la morte interiore di Bill, lo strazio di fronte alla morte del caro Harry.

A dodici anni Bill è già in grado di suonare pezzi complessi.  Trascorre almeno tre ore al giorno al pianoforte, la madre gli compra un mucchio di spartiti di musica classica che Bill legge e suona e anche davanti alle difficoltà non si scoraggia, ma si cimenta con entusiasmo (è del 1965 Bill Evans and The Symphony Orchestra dove Evans rende omaggio alla sua formazione classica). Non improvvisa Bill, ha tecnica, ha capacità spiccate di leggere la musica alla svelta, ma deve sempre avere lo spartito di fronte.

Ma quella volta però…

Aveva dodici anni, suonò l’arrangiamento che aveva trovato sul leggio, doveva sostituire al piano un compagno del fratello che si era ammalato di morbillo, Harry faceva parte dell’orchestrina della scuola. Bill dallo sguardo triste fu assunto. Una sera stavano suonando Tuxedo Junction, ecco che Bill ha una sorta d’ispirazione: alcune note blues…Tutte sue!

«Fu un brivido. La possibilità di fare in musica qualcosa che non era stato pensato da altri, spalancò davanti a me un mondo completamente nuovo».

Lo sguardo triste di Bill Evans, le vicende della sua esistenza sono quelle della sua musica, del suo stile, una visione tutta personale dello spazio e del tempo in musica, le pieghe più nascoste dell’animo umano e del suo sguardo triste.

Fragile Bill, quella sensibilità di chi è alla ricerca di continue conferme,  quella fragilità di chi non si sente mai amato veramente, di chi è dolce, riservato, acuto, ironico e penetrante. Quella fragilità di chi si perde, è stanco per rialzarsi, ma non riesce a fermarsi comunque: la grazia di Bill, la capacità  sovrumana di affrontare il mondo da soli senza sforzo, sfidarlo tutto intero, senza spettinarsi (…). La grazia di Bill è dote di profeti.

Bill dallo sguardo triste ha detto se stesso in musica.

«My creed for art in general is that it should enrich the soul, it should teach spirituality by showing a person a portion of himself that he would not discover otherwise; a part of yourself you never knew existed» («Il mio credo artistico è che l’arte dovrebbe arricchire l’anima, dovrebbe insegnare la spiritualità mostrando all’ascoltatore una parte di se stesso che non potrebbe mai conoscere con altri mezzi; una parte di te stesso di cui ignoravi l’esistenza»).

Rivoluzionario Bill. Rivoluzionario sì, ma silenzioso. Introdusse nell’armonia, fino ad allora tonale, il modale, ma non lo ha fatto con la rabbia e il furore di un Coltrane o di un Elvin Jones, lo ha fatto invece con la discrezione e l’intimismo che gli sono propri. Con grazia, appunto. Sono i richiami a Debussy e a Ravel, decontestualizzati e inseriti in una nuova atmosfera, impressionismo di un pianismo classico sì, ma dalle sfumature modali.

Indole ipersensibile, Bill dallo sguardo triste enfatizza gioie e dolori. Lui alla ribalta del jazz, mentre prendono il volo gli anni Cinquanta. Bill dal 1951 al 1954, gli anni della naja, il servizio militare assai duro anche se in patria, a Chicago, gli anni della Guerra Fredda. L’incontro con la droga per rimuovere i momenti e gli episodi peggiori.  Lo sguardo triste di Bill, ora, ancora più triste: «la roba – affermò lui stesso – è morte e trasfigurazione. Ogni giorno ti svegli tra i dolori, muori di dolore. E poi esci e ti fai, ed ecco la trasfigurazione. Ogni giorno diventa un intero microcosmo di vita». Fragile Bill, ora ancora più fragile, nessun Cold Turkey alla Miles (Davis) per Bill: non ne venne più fuori. La morte interiore, il calvario della droga, la droga insieme ad Ellaine, la prima moglie, fragile anch’ella che nel 1971 si getterà sotto la vettura della metropolitana di New York quando Bill le manifesterà la volontà di porre fine al loro matrimonio.

Nessun Cold Turkey alla Miles Davis, ma è proprio Miles Davis che nel 1958 lo invita al suo sestetto, poiché cercava un pianista “who was into the modal thing” (che stesse dentro a questa faccenda del modale) e Bill Evans c’era dentro. Superamento del bop, che aveva portato l’armonia del jazz alla massima complessità. 

Ed è la magia Kind Of Blue, forse il più bell’album di Miles, e Bill era lì, piegato sul pianoforte come fosse un tutt’uno con lo strumento, quasi in adorazione. Pare di vederlo nell’esecuzione, tipicamente evansiana, di Blue in Green. Suonare con Miles, fare parte del gruppo più amato a quei tempi (oltre a Miles, John Coltrane, Cannonball Adderley, Paul Chambers, Jimmy Cobb). Un onore per Bill suonare con Miles Davis, «avevo l’impressione che il gruppo fosse composto di superuomini». Un onore per Miles suonare con Bill Evans, che prendeva il posto di Red Garland. Bill, viso pallido, l’unico bianco del gruppo. Perché il jazz era proprietà (e priorità) dei neri: «viso pallido, devi scoparti la musica», diceva bonariamente e scherzosamente Miles rivolto a Bill, «e anche i neri, quei gradassi geniali del jazz, restavano attoniti, perfino commossi» (Daniela Armenta). Una consacrazione ufficiale per Bill, una collaborazione che terminerà poco prima della fine del ’58 quando Evans lascerà Davis, ma in un’atmosfera di rispetto, correttezza che gli era propria e serenità reciproche.

Nel 1959 Bill  dallo sguardo triste è stanco sì, ma arricchito dall’esperienza con Miles e compagni, è più sicuro di se stesso, come se fosse stato proprio lui ad esercitare una certa influenza su un mostro sacro come Miles! È allora il momento di Undercurrent con il chitarrista Jim Hall. Bill si vuole dedicare al trio e in autunno riunisce Scott La Faro al contrabbasso e Paul Motian alla batteria. Bill ricostruisce e rinnova motivi standard della musica americana e nei concerti quel trio è sempre più un miracolo, «Evans pare che suoni per se stesso e che non si curi del rischio di apparire monotono interpretando, per esempio, un tema lento dopo l’altro» (Arrigo Polillo). Piano, contrabbasso, batteria, poliritmie in un’articolatissima interrelazione. Bill dallo sguardo triste, Scott e Paul: una conversazione a tre, tra gli strumenti, un dialogo a tre in cui ognuno vuole miracolosamente entrare nell’animo dell’altro. Anche l’ascoltatore non specialista sarà subito catturato dalla fluidità della frase e dalla delicatezza impressionistica delle idee, dalla cantabilità delle melodie improvvisate,  dal dipanarsi imprevedibile del dialogo fra i tre strumenti comprimari. Ma i tre sono responsabili, più che verso il pubblico, soprattutto verso se stessi e verso…la musica! È il tempo di Speak Low, dove Evans sembra eseguire per se stesso, religiosamente piegato sul piano e ri-piegato quasi su di sé, «si avverte addirittura una sorta di infantile stupore per le proprie capacità» (E. Pieranunzi), ed è il tempo della tenera, elegante e travolgente Waltz For Debby, dedicata alla figlioletta del fratello Harry.

È il 1961 quando Scott La Faro muore in un incidente stradale. È la morte di Scott. È la morte interiore di Bill. È il rapporto continuo di Bill con la morte. Con il suo personale senso di fallimento costante, con la sua insicurezza perenne, con la sua sensazione di non essere stato e non essere amato. La Faro era pulito, studiava molto, progrediva, non perdeva il suo tempo a disperdersi tentando pericolosamente di provare droghe pesanti, «viveva la vita fino in fondo, assaporandola fino all’ultima goccia, “non mi piace guardare indietro perché il vero significato del jazz è nel coglierne il qui ed ora”» (E. Pieranunzi). Bill ammirava Scott, anche se a volte lo invidiava un po’, proprio perché nel suo rapporto con l’amico Scott, Bill dallo sguardo triste, preso costantemente anche dai suoi problemi di droga, di fronte ad uno Scott non poteva che sentirsi piccolo e quasi insignificante ancora di più pieno di paure e incertezze di come si sentiva di per sé. Eppure, significativo ed intenso era il legame tra i due.  È la notte del 5 di luglio del 1961 quando Scott La Faro, venticinquenne, finisce con la su Chrysler addosso a un albero. Muore sul colpo. Muore sul colpo l’anima di Bill nell’apprendere la notizia. Bill dallo sguardo triste, la morte dell’anima, il velo nero definitivo, perenne, resta per sempre sulla sua esistenza, già di per sé drammatica: «musicalmente tutto sembrò fermarsi. Non suonavo nemmeno a casa». Bill per mesi non suonerà, fino a Danny Boy, dedicato proprio all’amico Scott.

La morte degli altri. La morte interiore di Bill dallo sguardo triste, ora ancora e sempre più triste. Si sussegue una serie di lutti da qui in poi, nella vita di Bill. Nel 1971 il suicidio di Ellaine, nel 1979 il suicidio del fratello di Harry. Bill ormai è famosissimo. Non è uscito dalla droga. Continua a farsi. Trasognato, malinconico, pieno di grazia come sempre, come fin da bambino.  Bill si perde, ricade, è stanco per rialzarsi, ma non riesce a fermarsi lo stesso. La grazia di Bill è dote di profeti.

L’arte deve arricchire l’anima, sì, mostrare all’ascoltatore una parte di se stesso che mai conoscerebbe con altri mezzi. Da Very Early, il suo primo brano, nuovo, innovativo, dove troviamo tonalità diverse «pezzo già inequivocabilmente evansiano […] sia per i suoi aspetti formali, sia per il susseguirsi di slanci e ripiegamenti dell’animo che trovano perfetta aderenza nel movimento dell’armonia» (Enrico Pierannunzi) fino a You Must Believe In Spring (1977). Bill Evans ha sempre fuso il jazz e la grande musica europea nell’espressione e nello stile, aprendo strade a moltissime possibilità melodiche nonché a moltissime possibilità di esprimere in suoni il proprio io più nascosto. «È una storia di indimenticabile, ossessiva bellezza, di equilibrio, e di controllo di una tecnica stupefacente» (E. Pieranunzi).

Sono gli anni Settanta quelli in cui la salute di Bill vacilla, Bill ne è consapevole, ma non fa nulla per modificare la situazione. Non vuole, forse non ne vale nemmeno la pena. È stanco. Nel 1980, l’anno dopo il suicidio di Harry, una tournée europea lo vede con Marc Johnson al contrabbasso e Joe Labarbera alla batteria. In quella tournée è sempre più distaccato dalla platea quando suona ai concerti, sembra sempre che stia suonando per se stesso, piegato sul piano e ripiegato su sé. Pieno di grazia, Bill. Volto scavato, si è fatto crescere i capelli e la barba, le sue belle mani affusolate da pianista non sono più le stesse, sono gonfie. La morte interiore. Lo sguardo triste di Bill Evans, sempre più triste. Bill Morirà a san Francisco il 15 di settembre dello stesso anno. Muore di dolore. Porta il suo sguardo triste nell’inferno o in paradiso?...Chi lo sa? Di certo, come affermò Toots Thielemans, «a metà strada tra una lacrima e un sorriso».

Ilenia Beatrice Protopapa

 pubblicato su Music Magazine, anno III, n.1, gennaio 2018

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direttore editoriale Francesco Peluso, direttore tecnico Pietro Graziano, artistic supervisor Fabrizio Ciccarelli, caporedattore Annibale Rainone

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