Lucrezio de Seta Trio
Brubeck Was Right!
Headache Production Record 2017
Omaggio a Dave Brubeck? Sì, ma entro certi limiti. Chi cercasse nella tracklist potrebbe avere una sorpresa: non ci sono Brani del Maestro americano. Ci sono, invece, 4 capolavori del jazz moderno e composizioni originali firmate dal pianista Ettore Carucci, e ci sono soprattutto idee che “dicono” delle Blue Notes di Brubeck, di Brubeck e dintorni, per meglio dire.
C’è l’eleganza del Trio di Lucrezio de Seta, lo swing e la completezza emotiva che ci si attende da un album con due meravigliosi storici di John Coltrane (per Giant Steps anche un Take 2), A Night in Tunisia di Dizzy Gillespie e Frank Paparelli (vogliamo parlare di storia del jazz?) e On Green Dolphin Street, popular di Bronislaw Kaper (un’ altra pietra miliare, manco a ricordarlo: Miles Davis, Bill Evans, lo stesso Coltrane, Oscar Peterson, Erroll Garner ed almeno altri 100). C’è la stessa Ragion d’Essere del Jazz: l’educata eloquenza e la libertà di pensiero, la cultura delle armonie e l’improvvisazione ad momentum, la cura degli aggettivi stilistici e la necessità del Solo, il Veder Oltre e il Sentire il Passato, la Memoria dei Maestri e l’appassionato Incanto di chi vuol proporre il Nuovo. C’è, prima di tutto, il saper suonare sapendo interpretare, che non è affatto un dato scontato di questi tempi. Scegliamo qualche performance? Una lunare emotiva The simple Life of my Heart soffusa in Luce diafana tra pianoforte e ritmica; una fluente Giant Steps riletta secondo una sintassi contemporanea, devota a Trane certamente nei modi dovuti ma anche letta con un gusto del tutto personale che fa sicuramente onore a chi la esegue; una crepuscolare ed intensa Confusion di coinvolgente e commovente narratività, nella quale la “voce” pianistica di Ettore Carucci insinua nubi trasparenti di lirismo ed il contrabbasso di Francesco Puglisi si muove con dinamico e silenzioso equilibrio, al pari del soft touch di Lucrezio de Seta, batterista con un curriculum impressionante e con un fare artistico di grande spessore, che ha meritato da tempo giusto plauso da parte di chi ama la Musica.
Lucrezio, spiritaccio ironico ed intelligente per cui non si può non nutrire immediata simpatia, ha voglia di parlare di questo album e non solo. Preciso che ho scritto le mie osservazioni su Brubeck was Right! prima d’intervistarlo. E, in nome della sincerità e della spontaneità del Jazz, non cambio il “cappello”. Poi, assemblato il tutto, si guardi un po’ come va a finire...
d. Sei un musicista eclettico e al di fuori di stretti schemi mainstream, perché hai scelto il nome di Dave Brubeck per un disco che non suona come semplice omaggio quanto come Dialogo Aperto sulle Blue Notes contemporanee?
r. Dave Brubeck, oltre ad essere il pianista e compositore che tutti conosciamo, è uno dei pilastri del jazz moderno. Nel suo stile è uno di quei personaggi che non ha mai smeso di contaminare quel genere musicale che molti vorrebbero cristallizzare con elementi di musica classica, contemporanea ed etnica/popolare. Il suo contributo all’utilizzo di strutture e metriche dispari è a dir poco straordinario, considerando che nel jazz hanno regnato sovrani per almeno un secolo i soli 4/4 e 3/4. Il mio disco in realtà non contiene neanche una sola canzone di Brubeck, e questo volutamente. Il tributo quindi è al suo spirito, al suo atteggiamento nel jazz, al suo essere sempre stato un progressista, mai conservatore.
d. Un’eccellente opzione di quattro capolavori jazzistici, che chi ascolta non pensa tutti come immediatamente riferibili a Brubeck…perché questa scelta? Quanto risuonano essi nel tuo essere musicista e cultore di Jazz di prim’ordine?
r. La scelta è stata immediata per la rappresentatività dei quattro standard presenti nel disco. Come rinunciare ad avere un po’ di Coltrane o Gillespie nel tuo disco? Lo standard, per quanto vituperato oggi da chi il jazz lo confonde con il nobile, ma spesso abusato “Zim-pi-tin”, è la base per entrare nel linguaggio di questo genere musicale. Se vuoi imparare a suonare Jazz non hai scelte, devi metterti a studiare sugli standard, entrarci in sintonia e trovare il modo per renderli tuoi, ma quelli sono e restano, anche quando riarrangiati e rivoltati come abbiamo fatto noi in questo CD.
d. Scegli, nella redazione finale del disco, di alternare i quattro capolavori a composizioni originali di Ettore Carucci. Se il legame estetico può risultare evidente, l’intento è forse quello di comporre una linea di continuità fra le Memorie ed i Progetti?
r. Amo reinterpretare gli standards e mescolarli volutamente a composizioni originali, quasi a voler creare un ponte fra il presente e il passato. Mi sono trovato alla fine delle registrazioni con un elenco che si prestava benissimo a essere ordinato come una scacchiera, in cui ogni pezzo originale era incastonato fra due standards e viceversa. Ci ho messo un po' a decidere la sequenza finale ma alla fine credo ne sia scaturita una tracklist fluida e piacevole da ascoltare. Questo anche grazie alle bellissime composizioni di Ettore. Senza Ettore questo lavoro non avrebbe visto la luce, tanto che per la prima volta non ho voluto mettere neanche un solo mio pezzo nella scaletta finale del disco. Mi è sembrato tutto già così coerente, che introdurre un altro “colore” avrebbe rovinato l’estetica finale del tutto.
d. L’atmosfera che si respira, a mio avviso, è quella di un Live in Studio. Come hai vissuto l’incisione e, semmai siano stai scelti i Takes ritenuti migliori, quale “concordia” con il pianista Ettore Carucci ed il contrabbassista Francesco Puglisi è stata stabilita?
r. Noi si lavora “alla vecchia”, si prova e poi si registra. Le takes di questo disco non sono mai state più di una o due proprio per non dover affrontare la penosa scelta della miglior esecuzione. Il bello del Jazz è che quello che suoni una volta non lo risuoni la seconda, quindi rischi di dover fare un disco di 10 takes dello stesso pezzo perché su quella take c’era quel bel passaggio, su quell’altra mi piaceva il groove sul solo di piano, sull’altra ancora… Insomma, se i pezzi li sai, suona e poi fai “anghingò tre galline sul comò”…Con Ettore e Francesco è talmente facile suonare che anche la struttura più contorta diventa scorrevole e semplice all’ascolto. Due grandi artisti e sublimi strumentisti con i quali poi non si crea mai e poi mai tensione e negatività. Una cosa più unica che rara in ambito musicale.
d. Quando la Batteria diviene protagonista senza affogare le linee melodiche ed i Soli degli strumenti “portanti”…come si fa? Ci hanno provato tanti geni del drumming, da Art Blakey a Brian Blade, da Kenny Clarke a Jack DeJohnette, da Tony Williams ad Art Taylor…e non tutti ci sono riusciti. Qual è la tua Formula?
r.Lasciare che sia il pezzo a far cantare la batteria e non il contrario. Se ascolti e rispondi educatamente è difficile non essere ‘giusto’ nel dialogo fra te ed il resto dell’arrangiamento. E poi a me la batteria, soprattutto se da sola, mi annoia. Mi piace sentire gli altri strumenti, amo il basso, che strimpello anche male, ma conosco. Quindi in realtà quando suono il mio strumento il mio intento è di dare supporto e capire come ‘inserirmi’ piuttosto che come “impormi”. Non saprei descriverlo meglio ora…
d. Domanda con risposta sempre difficile ma grande Curiosità per chi legge: fra i tanti con i quali hai collaborato, chi, nel tuo intimo, occupa un posto speciale?
r. Pur rischiando di sembrare “democristiano” posso solo dire che tutti quelli che vedi elencati in una mia biografia (ossia redatta da me) sono tutti, a pari merito, i miei preferiti. Gli altri non li elenco, non per mancanza di rispetto o per fargli un dispetto, ma unicamente perché non credo siano rappresentativi nel mio percorso di “formazione” perenne.
d. Dammi, se vuoi, una tua osservazione sul Jazz Contemporaneo, preferibilmente italiano.
r. Il numero degli strumentisti italiani che possono tener testa alle punte di diamante di livello mondiale aumentano, e questo lo confermano i sempre più numerosi “export” verso festival esteri di tanti nostri colleghi italiani. Quelli che mancano sono i compositori e gli artisti che sanno interpretare il presente nel loro lavoro, che poi sarebbero quelli che dovrebbero scrivere oggi gli standard del domani.Inoltre il mondo del Jazz deve arrendersi al fatto che Jazz significa “guardare avanti”, “evolversi” e “cambiare” come più alto principio esistenziale che fonda le sue radici nei geni stessi del genere musicale che si originò per pura commistione e fusione di culture e arti a cavallo fra IX° e XX° secolo.
d. Quali sono le attività che ti vedono attualmente coinvolto?
r. Sono alla ricerca di una valida etichetta per il mio prossimo disco in quintetto. La formazione comprende un lineup internazionale con me alla batteria, Jean Philippe Morel al Contrabbasso e Basso elettrico, Nicole Johaenntgen al Sax Alto, William Lenihan alla Chitarra e Antonio Figura al Pianoforte. Poi da un anno sto lavorando in trio con il pianista Jay Oliver e William Lenihan in qualità di Bassista (lui suona veramente tutto…) con il quale sto avendo una regolare attività anche Oltreoceano. Suoneremo a Gennaio sullo stesso palco di John Patitucci e Brian Blade, una bella soddisfazione. Inoltre sempre a gennaio registreremo il nostro primo lavoro discografico che spero di poter portare in giro per l’europa già dall’estate 2019. Questo per quello che concerne i miei progetti da Leader o Co-Leader, a cui si affiancano numerosi progetti da sideman come il quintetto di Marcello Sirignano, il progetto di Giovanni Pelosi con Paolo Damiani, il Quartetto di Alessandro Girotto o il Trio con Marco Giocoli e Pierfrancesco Cacace…
d. A cosa stai pensando per il tuo prossimo album?
r. A farlo conoscere e apprezzare anche oltre le Colonne d’Ercole!
Fabrizio Ciccarelli
Ettore Carucci, piano
Francesco Puglisi, bass
Lucrezio de Seta, drums
- On Green Dolphin Street
- Tyre Blown
- A Night in Tunisia
- Confusion
- Giant Steps
- Ghost
- Lonnie’s Lament
- The simple Life of my Heart
- Giant Steps (Take 2)