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ANDREA DOMENICI, Playing Who I Am, Abeat 2019

 

Un talento italiano negli Stati Uniti ci fa sempre onore e piacere, e ci convince ancora una volta in più sulle doti artistiche dei nostri giovani jazzisti e di chi insegna loro i pregi e l’immenso potenziale creativo delle Blue Notes.

Speriamo che non sia il caso di un altro talento che se ne vada, in modo definitivo; perciò, con grande “ragione di cuore”, ci auguriamo che ciò non accada per Andrea Domenici, ventisettenne (!) pianista lecchese attualmente impegnato a New York, laureato magna cum laude alla New School for Jazz and Contemporary Music ed ammesso, unico italiano, ad un Master alla The Juilliard School, un Empireo per musicisti. Il motivo di questi successi appare ancor più chiaro dopo aver ascoltato Playing who I am, pubblicato pochi giorni fa dalla lungimirante Label italica Abeat, cui va tutta la nostra stima per il coraggio e la passione con le quali dà ribalta al jazz di casa nostra, e soprattutto ai giovani.

L’album vede la partecipazione di due artisti del calibro di Peter Washington al contrabbasso e Billy Drummond alla batteria: due nomi, per chi non li conoscesse, di assoluto rilievo nel panorama jazzistico statunitense, i quali, se hanno deciso di incidere in Trio col Nostro, avranno ben trovato un motivo più che plausibile perché, da quelle parti, si sceglie in base al merito e non alla convenienza.

Andrea è un pianista intelligente e colto che ha inteso il proprio “suono come sono” in modo non esattamente figlio del cartesiano razionalismo del “cogito ego sum” (penso dunque sono) quanto piuttosto del maggior amore possibile per le Blue Notes, come intuibile dalla lettura circa le fantastiche distonie di Thelonious Monk, il Pathos raffinato e discreto di Richard Rodgers e Gene De Paul, i passi più intimisti del Genio di Duke Ellington, centro emotivo del “ragionar libero” del suo pensiero compositivo, meditato con garbo e sicuro portamento estetico nelle tre ricerche originali a propria firma, bordate di espressività contemporanea ed intensa concentrazione sul magnifico Mistero dello Stile quale autobiografia, umana ed artistica.

L’ascoltatore attento noterà la Variatio del repertorio presentato, segno di una Rivelazione eclettica, memore delle esperienze compiute quanto attenta al necessario mutare della Riflessione: ad un post-stride lanciato nell’Insistito tipico del Monk più maturo e visionario (“We See”) si alterna l’adito crepuscolare della stupenda ballad “It’s Easy to Remember” (nella luce dei maggiori interpreti che le diedero lustro: da Keith Jarrett , Mel Tormé a Stacey Kent, non dimenticando la voce struggente di Billie Holiday), il notturno luminoso di “Daniela” (dedicata alla zia di recente scomparsa: ed anche questo suggerisce della sensibilità del Nostro per chi “lo ha sempre supportato fin da quando era piccolo”), la forma eterea della popular di De Paul “You don’t Know what Love Is” (Chet Baker, John Coltrane, Miles Davis, Roy Hargrove e soprattutto l’afflato assoluto dello Sciamano del jazz moderno Lennie Tristano).

In particolare, della sua scrittura, catalizza il volo lirico e attento sui voicings post bop di “For Kenny” (Kenny Barron, uno dei grandissimi Maestri con cui egli ha studiato, come con Barry Harris, Reggie Workman, Harry Allen) che forse spiega il motivo essenziale del pianismo di Andrea: un’Idea tanto mediterranea quanto newyorkese di elegante spontaneità, “combinazione di talento, dedizione e puro bisogno di esprimere i propri sentimenti nel modo più sincero possibile”, come meglio non avrebbe potuto dire il maggiore dei suoi mentori ,Dado Moroni, nella presentazione di questo album; un album, diciamolo, di un livello assolutamente internazionale.  

Fa veramente piacere intervistarlo.

D. C’è un pre ed un post jazz nella tua vita, un differente modo d’intendere la Musica, a partire dalle lezioni di Dado Moroni fino a quelle di Kenny Barron, Barry Harris, Reggie Workman e Harry Allen?

R. Ho da sempre ascoltato jazz, mio padre mi faceva ascoltare dischi di Errol Garner, Oscar Peterson ed Art Tatum sin da quando andavo all’asilo. Non aveva l’intenzione di farmi diventare un musicista, semplicemente amava questo tipo di musica e di conseguenza ha voluto condividere questa passione con me. Dado Moroni probabilmente è stato, e ancora è, la mia più grande influenza sia dal punto di vista musicale che umano. Mi ha dimostrato che la cosa più importante sul palco è di trasmettere qualcosa al pubblico. Lui, con il suo swing, mi ha sempre trasmesso una gioia profonda ed ogni volta che lo ascolto torno ad essere un bambino curioso di scoprire nuove cose al piano. Dado è un vero improvvisatore che è capace di provare nuove cose e vedere dove lo portano, la cosa più importante per lui è che le sue note siano oneste e non necessariamente perfette anche se è sempre perfetto.

Kenny Barron mi ha sempre entusiasmato per il suo tocco, il suo suono ed il suo senso del tempo. Il suo modo di fraseggiare è più unico che raro. Quando Kenny Barron suona una ballad mi lascia sempre senza parole, il piano inizia veramente a cantare.

Barry Harris è una colonna portante di questa musica ed ho sempre ammirato tra le tante cose la sua raffinatezza armonica.

Reggie Workman è stato mio insegnante alla New School per un anno e mi ha comunicato che la cosa più importante durante un concerto è saper ascoltare i musicisti con cui si suona più che essere preoccupati di cosa suonare.

Harry Allen è uno dei più grandi improvvisatori di sempre ed ho imparato da lui che è importante imparare tanti brani andando alla origine. Mi ha spronato a studiare gli standards andando a ricercare la musica originale. Ci sono tante gemme nelle partiture originali che non si trovano nei dischi. In più mi ha spinto a cercare nuovi approcci nell’improvvisazione ed a cercare di non ripetermi, sebbene è un errore comune di tutti.

D. Quale significato artistico e di vita assume per un jazzista italiano trovarsi nell’ambiente newyorkese? E’ un’esperienza che consiglieresti a tutte le nostre “nuove leve” alla ricerca di passi decisivi per la propria formazione musicale?

R. Il jazz è una musica non europea ma americana nata a New Orleans, successivamente molti musicisti di New Orleans incluso Louis Armstrong sono migrati nelle grandi città tra cui New York. Per conoscere questa musica alla radice bisogna conoscere chi veramente conosce questa musica ed a New York ci sono tantissimi grandi musicisti, più o meno conosciuti, che hanno un bagaglio di conoscenza infinito. Sicuramente consiglio a tutti di visitare New York ed ascoltare tanta musica. Qui ci sono musicisti che è difficile poter ascoltare in Europa se non sui dischi.

D. Piuttosto coraggioso confrontarsi con l’autorevolezza di Thelonious Monk e Duke Ellington perché il confronto estetico è davvero arduo: cosa ti ha spinto a rileggere le straordinarie partiture e le straordinarie personalità di tali Maestri?

R. Per me non è un confronto, il loro modo di scrivere musica lo sento mio, le loro melodie mi sono molto vicine. Non ho il desiderio di far vedere quanto sono bravo ad arrangiare la loro musica perché la rovinerei, ho solamente il desiderio di suonare la loro musica perché la amo profondamente cosí com’ è.

D. Hai suonato live on stage con David Kikoski, Gary Bartz, James Carter, Alvin Queen e tanti altri. Di queste importanti esperienze, molto rare per un pianista giovane come te, cosa rimane nella tua anima?

R. Sono tutti musicisti con una forte personalità e questo è quello che mi è rimasto di più. Mi ricordo quando ho suonato con Alvin Queen avevo 18 anni e Dado Moroni mi aveva invitato a suonare con lui. Avevo il timore su cosa suonare e mi ricordo che Alvin mi aveva sopraffatto con il suo suono, allora decisi di lasciare perdere le mie preoccupazioni e di suonare con la sua energia anche le note che potevano suonare “sbagliate”.

D. Certo che realizzare un album con Peter Washington e Billy Drummond non è vicenda di tutti i giorni…Com’è avvenuto l’incontro e cosa vi siete detti prima di entrare in sala d’incisione?

R. Billy insegna alla Juilliard dove mi sono laureato lo scorso Maggio, ho sempre voluto suonare con lui perché non è un musicista “ovvio”. Mi spiego meglio: non so mai cosa aspettarmi da lui. Inoltre ha un approccio melodico sulla batteria che nessuno ha. Quindi gli chiesi se dopo le sue lezioni avesse voluto suonare un’ oretta con me prima di uscire da scuola. Siamo andati avanti a suonare quasi tutte le settimane per diversi mesi ed è una esperienza di cui sono veramente grato.Peter ritengo sia uno dei migliori bassisti viventi, ho sempre amato il suo suono nel Trio di Tommy Flanagan, Billy lo conosce da molti anni e, dopo avergli parlato di me, ha voluto fare parte di questo disco. Non ci sono state vere e proprie prove, ho solamente mostrato alcune parti ai musicisti.Il disco è stato registrato in esattamente 4 ore in studio. I brani sono quasi tutti primi takes.

D. Dovessi dire un “grazie” a qualcuno, a chi lo diresti?

R. Ai miei genitori in primis, a Mario Rusca che mi ha allevato al pianoforte, a Dado Moroni, Rossano Sportiello, Kenny Barron, Billy Drummond, Peter Washington e Mario Caccia che ha creduto in questo progetto.

D. Quali progetti per il tuo futuro? Magari anche un “sogno nel cassetto”…

R. Per scaramanzia non si dice niente. Il mio sogno è di fare da side man nel gruppo dei miei musicisti preferiti che sono ancora su questo pianeta. 

Fabrizio Ciccarelli  

Andrea Domenici (p) 
Peter Washington (cb) 
Billy Drummond (ds)

1 We See Thelonious Monk
2 It’s Easy To Remember Richard Rodgers
3 Daniela Andrea Domenici
4 Bubba Andrea Domenici
5 You Don’t Know What Love Is Gene De Paul
6 Shuffle Boil Thelonious Monk
7 Ruby My Dear Thelonious Monk
8 For Kenny Andrea Domenici
9 Melancholia / Goodbye Duke Ellington /Gordon Jenkins 

 

      

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