Tempo dell’Anima e Geometrie della Conoscenza: This too will pass
Intervista ad Angelo Di Leonforte
“Compositore, arrangiatore, pianista delizioso, Angelo possiede una chiave espressiva di eccezionale spontaneità interpretativa”: così Gianmichele Taormina nelle note di copertina. Concordiamo col giudizio del bravo musicologo: Angelo Di Leonforte è un artista di grande sensibilità, raffinato nel suo pianismo intimista e tendenzialmente crepuscolare, incline al meditativo se non all’introspettivo, lieve nel percorrere con fluido lirismo la parte destra della tastiera, che tecnicamente sa dominare in cromatismi avvolgenti e affettuosi, anche se non è la tecnica l’espressione primaria del suo mondo, bensì quella profondità umana del magister in pectore Bill Evans che vira nel felice e apollineo stilismo del master of arts Keith Jarrett.
Come brani di riferimento, come sempre se ne chiedono a chi parla di Jazz, sceglieremo Waltz for Bill, dovuto omaggio allo splendido maestro di Plainfield, l’intensa commossa luminosità di Terra, l’elegante misteriosa tenuità di This too will pass e Children’s eyes, il passo in controtempo dedicato ad un altro dei lumi tutelari di Angelo Di Leonforte, Steve Swallow, gigante del contrabbasso, del basso elettrico e soprattutto dell’esprit de finesse delle Blue Notes tra Novecento e nuovo millennio. Con Angelo hanno suonato Alberto Fidone al contrabbasso e Peppe Tringali alla batteria, giusti talenti per un incontro improntato a perfetta spontaneità.
This too will pass (Anche questo passerà, e non possiamo non coglierne il senso attuale) è stato pubblicato da poco dalla label AlfaMusic. Ne parliamo con Angelo.
Da dove nasce questo progetto in trio, e perché proprio in trio? Quando hai pensato fosse arrivato il momento di dar vita ad un album a tuo nome?
In realtà, fin dagli inizi, ho sempre prestato grande attenzione alla “formula” del piano trio e a come questa si sia evoluta e cambiata rapidamente nel corso del tempo. Gli ascolti ovviamente influenzano la formazione del musicista e la percezione del materiale musicale; nulla togliendo a quanta grande musica sia stata incisa in formazioni più grandi, gli storici dischi in trio, insieme a quelli in piano solo, sono sempre stati i miei favoriti oltre a costituire un grande stimolo. L’idea di incidere un disco in trio c’è sempre stata ma non si è mai concretizzata per via di alcune mie reticenze su quanto fossi veramente pronto. Con il tempo ho preso coscienza dell’esistenza di un gap che si crea tra il proprio gusto musicale, che tramite l’ascolto cresce con estrema rapidità, e le proprie abilità che naturalmente maturano ma non con altrettanta velocità spingendo le pretese che ognuno di noi ha verso sé stesso sempre più in là. Memorabile è in tal senso l’intervista a Orrin Keepnews produttore di Bill Evans, che dovette faticare per convincerlo a incidere il primo disco per il quale il grande maestro non si sentiva ancora pronto. Essermi reso conto di questo mi ha dato lo spunto per cominciare la registrazioni del disco con Alberto Fidone e Peppe Tringali, amici e musicisti di altissimo livello che con la loro straordinaria sensibilità musicale hanno dato un contributo rilevante e fondamentale alla realizzazione del disco.
Il tuo senso compositivo nasce dall’amore per grandi maestri che hanno fatto del jazz l’espressione primaria del loro vissuto: quanto ti riconosci in essi e quanto pensi che il tuo percorso possa coincidere con una tua personale ricerca, diciamo così, conoscitiva?
Ci sono diverse personalità che mi hanno sempre affascinato e per le quali nutro una profonda stima e ammirazione. Una di queste è sicuramente Bill Evans: la nota malinconica che trasuda dalle sue incisioni, la sua personalità sempre inquieta e alla ricerca di qualcosa di più hanno sempre avuto delle forti risonanze in me. La sua estrema razionalità, la grande attenzione per il voicing leading e la precisione nell’improvvisazione dove ogni nota ha un reale motivo di esistere, dove le linee melodiche improvvisate si sviluppano estemporaneamente secondo i più rigidi dettami della composizione tradizionale, mi hanno sempre portato a porlo come un ideale verso cui tendere. In questo momento sto ancora cercando una mia personale dimensione che ancora credo di non aver completamente messo a fuoco. Ritengo che, dopo lo studio sullo strumento e l’assimilazione del linguaggio, questo sia l’impegno più gravoso per il musicista; un impegno a lungo termine che probabilmente non si potrà mai dire definitivamente compiuto.
Cosa comporta lo scegliere di suonare il pianoforte secondo un parametro intimista, raccolto, meditativo?
In realtà non ho mai amato l’idea di “mostrare a tutti i costi”, non solo in ambito musicale ma nella vita in genere; il mio modo di avvicinarmi alla musica e all’improvvisazioneè in effetti lo specchio del mio modo di essere. Ritengo che come in una conversazione non cerchiamo di usare il maggior numero di parole possibile, magari senza respirare, per impressionare l’interlocutore e dimostrare che “sappiamo” parlare, ma usiamo il linguaggio per esprimere il nostro pensiero, così in musica ogni nota credo dovrebbe essere suonata solo se è veramente funzionale ad esprimere il proprio sentire. Questo spesso si scontra con la voce nella testa che invece va nella direzione opposta: non stai facendo abbastanza! Devi fare di più! Devi dimostrare che sai fare!
Ascoltare lo “spazio intorno alle note”, come mi ha suggerito un grandissimo maestro con cui sto studiando da circa un anno, può essere di grande aiuto nel raggiungere questo delicato equilibrio e riuscire a dire quello che si ha da dire con le parole essenziali; questo è quello che cerco di fare. Aggiungerei, se posso, che questo tipo di approccio, nel contesto di sovraesposizione in cui viviamo, non sempre paga.
Mi piace sempre ricordare a me stesso una frase molto divertente che nella sua semplicità, e forse banalità, racchiude questo pensiero: meglio una nota di un chilo che un chilo di note!
Una domanda che di sicuro ti porrebbero i nostri lettori: quali sono i tuoi dischi del cuore, e perché?
Domanda difficile questa...Senza dubbio ho nel cuore i primi dischi che conobbi grazie al mio maestro quando ancora adolescente cominciavo ad approcciarmi al jazz: i dischi del primo quintetto di Miles: Relaxin’, Cookin’, Steamin’ e Workin’; Standards in Norway di Jarrett, Reak Book di Steve Swallow (compositore straordinario che amo moltissimo e a cui ho dedicato un brano nel disco), Kind of Blue, solo per citarne alcuni. La mia attenzione è stata poi inevitabilmente attirata dalla vasta discografia in trio di Bill Evans ma in particolar modo da quei dischi che hanno definitivamente cambiato la storia del piano trio e la cui influenza è ancora evidente nella produzione discografica contemporanea: parlo di Portrait in Jazz, Explorations e Sunday at the Village Vanguard. Altri dischi che adoro sono sicuramente i dischi in piano solo di Jarrett (The melody at the night with you, i Sun Bear Concerts) e di Fred Hersch (Alone at the Vanguard, Solo, Open Book) ; due artisti contemporanei che hanno inciso molto sul mio modo di vedere, intendere e percepire le dinamiche del piano solo.
Quali consideri i passi fondamentali che ti hanno portato a scegliere il Jazz quale tuo linguaggio espressivo?
L’incontro con il jazz è avvenuto abbastanza presto, era il 2000, avevo 15 anni. Studiavo già pianoforte da diversi anni e ricordo che fui affascinato dall’ascolto di un disco di Michel Petrucciani regalatomi da un mio vecchio compagno di scuola. Il mio stupore crebbe quando cercando le partiture di quei brani scoprii che tutto, dopo l’esposizione del tema, era improvvisato! Cominciai a cercare informazioni su quali fossero i meccanismi di quel linguaggio meraviglioso e come potevo fare per impararlo, ma subito capii che non avrei cavato un ragno dal buco da solo. La fortuna volle che a circa un’ora di distanza vivesse il Maestro Giovanni Mazzarino con cui cominciai gli studi di pianoforte jazz, armonia e improvvisazione che si protrassero per circa dieci anni. Da quel momento in poi capii che il jazz e l’improvvisazione, mi avrebbero impegnato a tempo pieno. Tutti gli incontri che ho avuto nel corso degli anni con nomi illustri del panorama jazzistico mondiale (Barry Harris, Bob Mintzer, Dado Moroni, Steve Swallow, Fred Hersch, solo per citarne alcuni) non hanno fatto altro che accrescere il mio desiderio di sapere, di crescere, di migliorare. I meccanismi sottesi a questa arte che è l’improvvisazione sono talmente complessi e affascinanti che è necessaria una grande dedizione e soprattutto un profondo amore; è questo amore che consente di non essere sopraffatti dallo sconforto di fronte a quanto ancora ci sia da fare.
Quali collaborazioni consideri maggiormente formative per la tua attuale estetica musicale?
Ho avuto modo di conoscere e suonare con diversi musicisti nel corso degli anni ma in realtà non sono mai state collaborazioni stabili nel tempo che avessero una forza tale da influire fortemente sulla mia estetica musicale. Alcune di queste sono state più incisive di altre anche per via dell’affetto e dell’amicizia che mi lega alle persone in questione. L’incontro con ognuno è stato chiaramente motivo di crescita, ma francamente la mia idea musicale si è più definita con l’ascolto dei dischi dei musicisti che più amo e che ho citato in precedenza, con lo studio, la trascrizione e l’analisi.
Dovendo scegliere tra i brani del tuo album, a quale daresti il privilegio di rappresentarti in maggiore misura?
Nel disco sono presenti brani scritti molti anni fa e brani più recenti. Penso che il brano che dà il titolo al disco This too will pass sia quello che sento più vicino in termini di significato. La storia Sufi, da cui prende il titolo la composizione, è davvero interessante e piena di significato. Ho fatto incidere quella frase su un bracciale che tengo sempre al polso. Questo mi aiuta a ricordare, quando mi lascio travolgere dalla vita, come ognuno di noi d’altronde, che tutto è impermanente, che tutto scorre continuamente e che senza questo continuo mutamento non sarebbe immaginabile la vita su questo pianeta. Un continuo avanzare tra tenebra e luce, questo penso sia l’essenza dell’esistenza; ricordarmelo mi aiuta a non disperare di fronte alla prima e a non attaccarmi alla seconda pensando che possa durare per sempre.
Fabrizio Ciccarelli
Angelo Di Leonforte Trio, This too will pass, AlfaMusic 2020
Angelo Di Leonforte piano, composition
Alberto Fidone double bass
Peppe Tringali drums
1.CHILDREN'S EYES 7.25 2.LIPARI 6.06 3.MORE THAN THIS 6.08 4.NEW ARRIVAL 7.10 5.STEVE SWALLOW 4.37 6.TERRA 6.34 7.THEME FOR MY FATHER 1.33 8.THIS TOO WILL PASS 6.39 9.WALTZ FOR BILL 4.31
Total time 50.47
Produced by Angelo Di Leonforte for AlfaMusic Label&Publishing
Production coordination Fabrizio Salvatore
Ascoltare l'album:
https://www.youtube.com/watch?v=JIX34OGsOgo&list=PLKiFziytO7gcVWRowEdi-6kLpq4ZMjK2J&index=1