Chris Potter Trio
Casa del Jazz, Roma 3.7.2017
If I can make it there I'll make it anywhere, cantava Frank Sinatra, e non aveva torto: New York è la città più spietatamente veloce e competitiva al mondo.L’energia che sprigiona è palpabile, ce ne si rende conto facendo due passi a Manhattan, ascoltando il suo suono: una sinfonia di traffico, lavori in corso, chiacchiericcio e passi frenetici di pedoni, sirene di ambulanze e auto della polizia; oppure ascoltando la musica di chi appartiene alla sua scena e riesce, faticosamente, duramente, a fuoriuscirne e ottenere consenso su scala planetaria.
Quasi tutti i più grandi jazzisti di ogni epoca hanno avuto a che fare con la Grande Mela: il confronto con il suo pubblico, con i locali notturni, le scuole, le etichette discografiche, i critici e gli altri musicisti, è sempre stato un punto di passaggio fondamentale per la quasi totalità delle carriere nella musica afroamericana. Come dire: c’è un importante pezzo di New York in ognuno dei jazzmen americani che abbiamo conosciuto, ascoltato, amato. Ma fra questi ce ne sono alcuni la cui musicalità sembra inscindibile dalla città stessa, quasi fosse una diretta emanazione della sua energia. Il sax tenore di Chris Potter è esattamente ciò: la trasposizione in musica del suono di New York. Difficile dire perché. Forse a causa del suo fraseggio: Hard Bop aggressivo, sfrontato, al tempo stesso graffiante e preciso, ostentatamente sicuro di sé, come un Sonny Rollins maggiormente calato nella convulsa modernità dei giorni nostri. Ma anche capace di un lirismo profondo, emozionante, passionale, a tratti addirittura delicato; lo stesso che si può percepire ascoltando uno dei tanti bellissimi soli di Michael Brecker (peraltro Potter possiede un Selmer appartenuto a Brecker prima della prematura scomparsa nel 2007). Eppure, al di là della punteggiatura espressiva, delle scale, dei pattern, c’è dell’altro, che ha esclusivamente a che fare con la sola, bellissima voce del suo strumento, e perciò è ancora più difficile da spiegare in termini razionali: basta una singola nota soffiata nel suo sax per portare alla mente l’immagine di un bagliore che illumina Manhattan, visualizzare le mille luci dello skyline notturno più famoso al mondo.
Il concerto nel palco all’aperto della Casa del Jazz conferma tutte le sensazioni provate dall’ascolto delle esecuzioni in studio, come ad esempio il pluripremiato Two against nature (Giant, 2000) degli Steely Dan (a proposito di newyorchesi doc) che non a caso viene diffuso dall’impianto prima e dopo il live. La scaletta è costituita per lo più da composizioni dello stesso sassofonista, apparentemente essenziali dal punto di vista dello sviluppo armonico e incentrate su complessi rimandi poliritmici; brani che non sembrano brillare particolarmente, se non per il decisivo contributo dei musicisti sul palco: lo stesso Potter e i due compagni di viaggio, James Francies alle tastiere e pianoforte e il batterista Eric Harland. I tre sono perfettamente a loro agio nel girarsi e rigirarsi in arditi controtempo, all’interno di partiture già di per sé molto complesse dal punto di vista ritmico; sembra quasi si rincorrano, in un gioco a nascondino che però non perde mai di vista la casa base, la tana comune, ossia il groove. Harland in particolar modo è un’instancabile drum machine che sfodera un campionario di splendide soluzioni sia timbriche che figurative, ricordando il contributo di Peter Erskine in collettivi come Weather Report o Steps Ahead. Tale sensazione è acuita dall’apporto di Francies, molto più attivo su synth e piano elettrico Korg che sul Mezza Coda; la sua giovanissima età è un corroborante energetico, anche per quel che riguarda la scelta delle sonorità (molto interessante il suono di piano elettrico ricco di armoniche non intonate rispetto alla fondamentale, cosa che conferisce allo strumento un timbro da “campanile”). Eppure rivela i suoi limiti soprattutto nell’esposizione di soli con abbondante utilizzo di pattern molto muscolari e in alcune armonizzazioni dall’acerbo sapore acid jazz. Il risultato è un serrato funk electro/fusion ad alto impatto spettacolare, condito da elementi di vero e proprio sound design riprodotti da Potter con flauto e clarino basso, filtrati da effettistica e reiterati tramite loop station. Eccezion fatta per alcuni, rari, episodi: The dreamer is the dream, title track del nuovo cd edito da ECM, sembra un tema da colonna sonora morriconiana, anche grazie all’esposizione del clarino basso; a metà del brano i due compagni scivolano via, lasciando Potter ad esplorare in solitudine le molteplici possibilità di sviluppo armonico suggerite tanto tempo fa da Bach nel “clavicembalo ben temperato”. E poi il bis finale, un dolce spiritual in cui finalmente James Francies evita di toccare le tastiere e si produce in un solo di piano tenero e ispirato: come a dire che sì, di tanto in tanto, anche New York, una carezza te la regala.
Antonio Catalano