Wayne Shorter a Umbria Jazz, Perugia 14.7.2017
Suggestioni lunari e Wayne Shorter ipnotizza l’arena!
La luna? Stasera ancora non s’è vista.
Non è il solito caldo torrido a Perugia, o meglio, stasera non c’è quell’afa che l’estate 2017 ci sta spietatamente e generosamente regalando. Questa sera, 14 luglio 2017 – forse complice la pioggia passeggera del primo pomeriggio? – soffia il venticello all’arena Santa Giuliana di Perugia. Ed è un vento un po’ impertinente.
La luna? Ancora non si vede.
Sono lunghe le giornate in estate a Perugia. La luce persiste fin oltre le nove della sera. Sembra sempre giorno fino a che, all’improvviso, alzi gli occhi al cielo e puoi già vedere le stelle, spilli brillanti su un manto di velluto scurissimo.
Sembrano lunghe le giornate in estate a Perugia, come lunghi sembrano quei dieci giorni di Umbria Jazz, e quando poi di colpo la città si svuota, ti rendi conto che son passati via come una meteora.
Perugia «è il luogo in cui bisogna essere in questo periodo dell'anno» (Herbie Hanchock), anche se sono lontani ormai i tempi di chi, di una generazione prima della tua, ti racconta che in quei dieci giorni – attesi come non mai – i mostri sacri del jazz li potevi incontrare per strada, così, per caso tra la gente: «Ornette, Ornette…!» (Coleman!) e poi, Dizzy Gillespie, Bill Evans, Chet Baker, Keith Jarret, per citare solo alcuni.
La luna? Stasera ancora non si vede.
Lei è seduta sulle gradinate dell’arena. Lui le chiede se gradisce una birra. Lei sorridendo dolcemente gli dice di sì, ma gli dice anche che intanto lo aspetta seduta lì sulle gradinate, altrimenti rischierebbero di perdere il posto. La gente pian piano sta arrivando, l’arena Santa Giuliana si sta gremendo. La luna ancora non s’è vista, ma tutti ci auguriamo che il suono lunare ed ipnotico del sax di Wayne Shorter compenserà di certo quell’assenza. Lui allora, lasciandola lì seduta, si avvia. Passano cinque secondi, lui ritorna, ma senza birra. Lei è troppo “appetibile” e lui ha paura, paura di lasciarla da sola, in mezzo a tutta quella gente, ad aspettare: «e se poi quando torno e non ti ritrovo?». Lei gli ride in faccia divertita. Lo rassicura. Gli dice di sbrigarsi perché il concerto sta per cominciare. Lui va.
Mi gusto la dolce e tenera scenetta mentre a Perugia sta per cominciare il concerto di Wayne Shorter. C’è il vento che soffia sulle gradinate dell’Arena gremite di gente. La luna non c’è, non s’è ancora vista, ma saranno il suono lunare e le frasi ipnotiche del sax di Shorter che di certo compenseranno quest’assenza.
Sempre inconfondibile il marchio di fabbrica di Shorter. Brani d’avanguardia basati su originals. Eccolo lì, nel suo completo nero da jazzista navigato, lui che nonostante i suoi ottantaquattro anni, «non è facile viaggiare – aveva egli stesso affermato – ma è la missione del processo creativo. L’umanità è una forza che ti guida e t’incoraggia», riesce sempre a rinnovarsi e intanto risuonano nella mente le parole di Joe Zawinul (era il 1969 quando determinante fu il suo ruolo in In a silent way di Miles Davis): «dovete ricordare che Wayne è stato con Miles per sei anni e che ha contribuito a far prendere forma a quella musica. E i pezzi che ha scritto ebbero anche l’effetto di modificare, in una certa misura, quello che Miles andava facendo. Tutto cominciò quando Wayne scrisse Nefertiti per il gruppo di Miles Davis. Fu quello l’inizio di un nuovo mondo».
Il concerto di stasera è diviso in due parti, con il quartetto (John Patitucci al basso, Danilo Perez al piano, Brian Blade alla batteria), Wayne Shorter suona il sax tenore, nella seconda parte invece (in cui Shorter ci regala il suono del sax soprano) il quartetto è accompagnato da quaranta musicisti dell’Orchestra da Camera di Perugia diretta dal maestro Clark Rundell. Proprio per questa occasione, infatti, Shorter ha composto le tre suites quasi fiabesche dell’opera Emanon. I brani qui vengono affidati a spunti melodici che l’orchestra sinfonica leviga, ma il principio resta sempre quello di ripetere le frasi con ritmi mutevoli, anzi, tutti gli strumenti sono solisti in un intreccio polifonico su un tappeto ritmico cangiante. E, ancora più che mai in questa parte, si avverte il gusto di Shorter per l’innovazione, «con questa avventura fantascientifica ho voluto dire qualcosa per primo», ha affermato egli stesso. Ma in un’intervista, perché non ha parlato Shorter durante il concerto, assorto totalmente nella musica, solito carattere, inconfondibilmente riservato, si direbbe quasi timido nonostante l’età e la carriera, seduto con i suoi due sax: lui, la leggenda del sax, ha soltanto (?!) suonato. È in questa seconda parte che forse, potremmo dire, si sia avvertito forse più spesso (come in certe musiche neoromantiche) lo stacco tra le parti affidate alla sola orchestra e quelle affidate al quartetto. Questo, in ogni modo, interviene come in un gioco, nelle pause dell’orchestra, quando il discorso, come anche nella prima parte del concerto, diventa sempre più serrato.
La luna? Non c’è. Ma ci sono le stelle. Tra tutte quella che brilla di più, lui, Wayne Shorter, il Maestro della composizione immediata e ti rendi conto che gli spartiti messi lì, sui leggii, non serviranno se non soltanto a dare una flebile guida, una traccia. Quando il concerto inizia, inizia lento, come fosse ancora una prova. Il pubblico resta in silenzio, aspetta pazientemente il momento in cui il discorso musicale si aprirà, cos’ha in mente il grande Shorter stavolta? «Shorter was the idea person, the conceptualizer of many of our musical ideas» ha detto lo stesso Miles Davis quando lo volle nel suo Secondo Quintetto.
Gli assoli di Shorter si aprono lentamente verso un ampio insieme di suoni, sono rapidi i passaggi, ed i motivi sono brevi, ripetuti, scambiati tra gli strumenti, la melodia resta. Il ritmo cambia e a sua volta si sviluppa in forma poliritmica. Lo stile del batterista Brian Blade e di Danilo Perez al piano non fa che ricordarci quello del Secondo Quintetto di Miles, «I knew right away that this was going to be a motherfucker of a group!», affermò lo stesso Miles ed erano i tempi di Miles con Herbie Hanchock al piano, Wayne Shorter al sax appunto, Ron Carter al basso, Tony Williams alla batteria.
L’atmosfera qui all’arena intanto è ipnotica, estatica e lunare è il suono del sax tenore di Shorter.
Il ritmo cambia di continuo e il motivo viene trasportato e a sua volta ci trasporta in una dimensione altra. La luna non c’è, ma noi la vediamo lo stesso! Shorter propone soluzioni nuove, come da sempre ha fatto, lui che è convinto che il jazz è andare avanti, una musica che va lontano alla ricerca dell’ignoto, una musica non scritta che stimola una ricerca e un dialogo continui.
Così, è stato. Il gioco dell’innovazione continua ad essere il gioco preferito di Wayne Shorter; lui, una forza senza età, lui che nel suono lunare e ipnotico del suo sax in un solo momento continua a racchiudere tutta l’eternità. Il dialogo tra gli strumenti, lo scambio e le frasi tra loro si fanno sempre più serrate. Applausi finali. Il pubblico ringrazia. Si prova ad aspettare un bis, magari a strappare ancora un’altra esibizione. No, è finito. Ma va bene così. È l’enigma della vita, un’avventura sempre aperta. Il pilota che riesce a spiccare il volo ogni volta. «La stessa resistenza che pretendi dal tuo sassofono». The meaning of the… Jazz.
E la luna? La luna noi, stasera, al Santa Giuliana qui a Perugia… l’abbiamo vista!
Ilenia Beatrice Protopapa