Jazzmi: di tutto di blues
Nnenna Freelon ed il Victor Wooten Trio al Blue Note di Milano, 1 e 2 novembre 2018
Al netto di un repertorio di standards (Smile, Time after time, Batche by golly wow, Squeeze me, Moon River, Stella by starlight), l’atmosfera dei due concerti tenuti dalla cantante americana Nnenna Freelon al Blue note di Milano è stata di quelle intense e avvolgenti, e non solo perché si era nel tempio italiano delle blue note, appunto, e nel contesto di una delle più importanti rassegne di jazz winter del nostro Paese.
Questo certo ha la sua importanza, ma più ne hanno il ritorno alle scene dopo una sofferta parentesi personale di una cantante un po' defilata dallo star system, non conosciuta dal grande pubblico, ma dalla voce potente e profonda, l’annuncio di un suo nuovo disco dedicato al tema del tempo che passa, ai tanti musicisti, amici e non, che gli anni si portano via (Al Jarreau, Aretha Franklin, Roy Hargrove), alla ricorrenza dei defunti che rende tutto più fragile e ispessisce – com’è umanamente comprensibile - la voglia di essere, e di essere ancora, e di essere qui, nel cerchio gioioso della musica, tra gente che in qualche modo continua a capirsi nonostante i nostri tempi difficili …. sarà per questi e altri motivi che brani sentiti tante volte (riarrangiati e esaltati da artisti come Nina Simone o Diana Krall o ritualizzati da un mainstream più corrivo ma anche gradevole) prendono un calore e un colore singolari a conferma che il jazz è scrittura ma anche interpretazione, anzi quando ci troviamo di fronte a una voce eccellente come questa è una seconda scrittura, certo una seconda vita.
Moon river, tanto per citarne uno, portato da Freelon a un tale livello di intensità e di struggimento complice anche il pianismo rarefatto di una sideman (Miki Hayama) giapponese di nascita, newyorkese d’adozione ma che ha “nel sangue il Mississippi”.
C’era tutta la varietà e la qualità del jazz classico nell’esibizione di Freelon, che vanta numerose nomination ai Grammys e collaborazioni con artisti come Ray Charles e Dianne Revees; c’era il blues e il ragtime, lo ska e lo swing e la consapevolezza di come la voce può rinnovare e adeguare una song a certi movimenti profondi dell’anima: quella di chi canta ma anche di chi l’ascolta ed è in sintonia con lei. Non c’era, invece, (ed ecco un ulteriore titolo di merito) alcuna traccia di nevrotico virtuosismo con cui taluni nascondono la mancanza di talento naturale.
Ma quella di Freelon è solo una delle facce di Jazzmi, rassegna milanese che intende esplorare in lungo e in largo l’arcipelago del jazz contemporaneo, spaziando dalla tradizione agli sviluppi e alle contaminazioni di una musica che ha saputo conservarsi proprio nel suo incessante progredire e nel suo diffuso radicamento culturale. Basta guardare il nutrito cartellone di quest’anno, assolutamente calibrato tra artisti italiani e stranieri, tra innovazione e passato, tra uomini e donne, tra solisti e band, più tutte le iniziative collaterali, tra arte, cultura e promozione, sparse per club, teatri, musei, spazi eclettici, per rendersene conto.
Un’altra faccia di questo arcipelago in movimento, periodicamente strattonato da vere e proprie avanguardie che ne scuotono anche le zolle più dure, è quella del Victor Wooten Trio, gruppo di Fusion dai fuochi d’artificio costruito attorno alla figura di un musicista che con Stanley Clarke e Marcus Miller è una delle icone del basso moderno (i tre hanno realizzato nel 2008 il disco Thunder).
Vincitore di vari Grammys e accreditato da Rolling Stone come uno dei dieci migliori specialisti dello strumento di sempre, Wooten suona in modo virtuoso e percussivo senza perdere di vista la dimensione espressiva e melodica del basso che gli deriva dalle origine soul rivisitate in chiave Weater Report.
Tanto intimista e malinconica è stata l’esibizione di Freelon, tanto frizzante e intrepidamente funky quella di Wooten, perfettamente in sintonia con i suoi compagni di scena il sassofonista Bob Franceschini e il batterista Dennis Chambers. Una sintonia programmatica per il musicista dell’Idaho che ha dichiarato in una recente intervista che “per essere in una band bisogna ascoltarsi l’uno con l’altro. Le band raggiungono il meglio quando ogni strumento è diverso, non uguale. Ciascuno, a turno, prende la parola. Ciascuno parla con la sua voce. Tante volte i musicisti chiedono: ‘Che cosa vorresti che suonassi?’ Io rispondo: ‘Ascolta la musica. La musica ti dirà esattamente ciò che occorre’.”
Ma questi erano solo gli inizi di Jazzmi, 1 e 2 novembre, il meglio - come ha detto scherzosamente e con umiltà Freelon - deve ancora venire. E si sta svolgendo in questi giorni, mentre scriviamo, fino al 13 novembre, nella più metropolitana delle città italiane, nella Milano “vicino all’Europa” di cui cantava un altro grande che non c’è più, Lucio Dalla, con un programma sulla cui qualità e varietà c’è veramente poco da dire, visto che a parlare (anzi, a suonare) sono i nomi: Maceo Parker, Stefano Bollani, Enrico Rava, Ron Carter, Chick Corea, Antonio Sanchez, Bill Frisell, James Senese, Enrico Intra, Judi Jackson, Abdullah Ibrahim, John Scofield e per chiudere, insieme a molti altri, “Cinquant’anni di azzurro” di Paolo Conte.
Stefano Cazzato