BILL FRISELL TRIO, Casa del Jazz, Roma 10.7.2019
Esistono musiche che possano considerarsi “americane” quanto il Jazz? Sì: sono il Country, il Blues ed il Rock. Bill Frisell ne è certo. Nel corso degli anni non ha fatto altro che dimostrarlo, abbinando la ricerca della sua voce chitarristica a una sintesi musicale proiettata verso il futuro, ma che originava dall’intimità della sua anima, profondamente americana. Tale impostazione ha contrassegnato tutto il suo percorso, influenzando sia il suo modo di suonare la chitarra che la sua proposta musicale in toto. Dal punto di vista della tecnica strumentale, sebbene altri prima di lui abbiano miscelato il linguaggio jazz a quello del rock, Frisell è stato il primo a inserire nel fraseggio della chitarra jazz, solitamente staccato e punteggiato, elementi espositivi più fluidi ed echeggianti, caratteristici delle altre musiche americane, e in particolare della rivoluzione elettrica di Jimi Hendrix: ciò è evidente ad esempio nell’utilizzo del feedback, nel tipico risuonare delle corde a vuoto, oppure nell’esecuzione di arpeggi in cui tutte le note dell’accordo continuano a riecheggiare contemporaneamente. Questo tratto l’ha portato a elaborare una sua voce molto distintiva e ad essere considerato uno dei principali chitarristi di fine millennio, insieme ai coevi Pat Metheny e John Scofield; non è un caso che i tre abbiano più volte collaborato in progetti di registrazione (anche se mai tutti insieme contemporaneamente): in effetti, ogni componente di questo “triumvirato” della chitarra elettrica contemporanea possiede uno stile talmente peculiare da rendere impossibile ogni pleonastica sovrapposizione.
Per quanto riguarda invece la proposta musicale nel suo insieme, è possibile tracciare dei distinguo seguendo gli spostamenti di città in città; originario di Baltimora, a inizio degli anni 80 si stabilisce a New York, dove, oltre ad iniziare la collaborazione con la ECM, ha avuto modo di entrare in contatto con la sperimentazione avant garde di John Zorn e di suonare in altri prestigiosi progetti come il trio di Paul Motian con Joe Lovano e il quartetto Bass Desires di Marc Johnson (una delle già citate incisioni con John Scofield, che figurava anche egli nella formazione). In seguito al trasferimento nello stato di Washington, a Seattle, verso la fine degli anni 80, la musica di Frisell tende a farsi più rarefatta, incorporando idealmente i grandi spazi del Mid-West, le derivazioni più twang del blues e gli stilemi del country acustico; di questo periodo sono le collaborazioni con Ryuichi Sakamoto e David Sylvian, la produzione del celebre Have a Little Faith (Nonesuch Records, 1992), album in cui rivisita alcune delle pagine musicali americane più note, da Aaron Copland a Madonna, passando per Bob Dylan, e il lavoro per il cinema: dalle sonorizzazioni dei film muti di Buster Keaton alle composizioni dello score per Finding Forrester di Gus Van Sant e La scuola di Daniele Luchetti. Un ulteriore trasferimento avvenuto nel 2000 nell’Isola di Bainbridge, sempre nello stato di Washington, segna l’inizio di un periodo ancora più intimista, in cui continuano le collaborazioni jazz internazionali, le aperture al pop rock e alle musiche del mondo, le sperimentazioni, le riletture del repertorio americano (questa volta tocca a Burt Bacharach).
Ed eccoci ai giorni nostri, e più precisamente al concerto del Bill Frisell Trio tenutosi alla Casa Del Jazz di Roma all’interno della rassegna Summertime 2019; davvero difficile, dopo un percorso artistico così ricco, variegato, aperto e sperimentale, dire qualcosa di nuovo. Il chitarrista originario di Baltimora ci prova lavorando, se possibile, ancora di sottrazione: il fraseggio è addirittura meno jazzistico del solito, con pochi rarissimi cromatismi e blue note, mentre abbondano le reiterazioni di cellule melodiche, anche tramite l’utilizzo di loop station e di un’elettronica scarna e funzionale. Anche il suono della chitarra (una Solid Body Gibson SG, utilizzata per tutta la durata del set) è meno elaborato e riverberato rispetto al passato, e sebbene il repertorio rivisitato sia decisamente jazz (da Misterioso di Thelonious Monk a When i fall in love, passando per In a silent way di Miles Davis) ciò che arriva al pubblico è un’elegante stratificazione di ritmiche e armonie, simile al post rock di gruppi come Tortoise o Blonde Redhead, oppure alla proposta musicale di Marc Ribot. I compagni di viaggio di Bill sostengono degnamente tale intenzione sonora. Thomas Morgan rivela al contrabasso una vena brillante e ironica, sia nell’esposizione dei soli che nell’accompagnamento, giocando con salti melodici e dinamici molto sfumati e sottili. Rudy Royston sfodera uno stile batteristico maggiormente metropolitano, composto da poliedrici rimandi a una sobrietà rock: basti pensare che dovrà trascorrere circa un’ora dall’inizio del concerto per ascoltarlo eseguire la classica scansione swing portata sul piatto del ride; molto interessate anche il suo approccio solista, imperniato su improvvise e scattanti accelerazioni dinamiche.
Il brano più riuscito del concerto è Rag, una composizione di Frisell al tempo stesso frizzante e malinconica, con accenni latini giocati fra tempi quaternari e ternari, esposta e interpretata magistralmente dai tre. Poi, all’apice della serata, a sottolineare ancora una volta l’apertura verso i codici della chitarra rock e a rinnovare la personale predilezione per le musiche profondamente stratificate nell’immaginario collettivo, ecco che arriva l’omaggio a John Barry: Goldfinger, celebre tema tratto dalla colonna sonora dell’omonimo episodio della saga 007, viene eseguito in un crescendo di reiterazioni chitarristiche implementate grazie alla loop station, con la batteria di Royston che risponde colpo su colpo alle invenzioni elettriche, ora distorte e corrosive, ora nitide e cristalline, del band leader. Seguono due bis: ancora Monk con Epistrophy e poi la canzone di protesta We shall overcome di Peter Seeger; quindi i saluti finali.
Il Bill Frisell Trio convince ma, nonostante la prossemica esibita sul palco con la scelta di suonare molto vicini, quasi gomito a gomito, l’interlplay a tratti lascia qualche perplessità: in più di un’occasione le reiterazioni chitarristiche che il band leader opera con la loop station mandano fuori giri il drumming di Royston, che è così costretto a rincorrerle accelerando o rallentando a seconda dell’esigenza. I tre hanno già collaborato insieme, probabilmente però non abbastanza per raggiungere l’affiatamento del trio precedente, composto dallo stesso Frisell , Tony Sherr al contrabasso e Kenny Wollesen alla batteria; formazione che invece ha vari anni di performance e registrazioni alle spalle. Ma lo straordinario percorso di un artista contemporaneo così libero e al tempo stesso rispettoso della tradizione come Bill Frisell parla da sé, e sembra quasi voler dire: date tempo al tempo, we shall overcome.
Antonio Catalano