Macbeth with Half Lady (la prima alla Scala, 7.12.2021)

Macbeth and Half Lady

Nel 1970 la Decca registra una nuova edizione di Macbeth, dopo quella, ottima, di Schippers del ‘64: Andrew Porter, all’uscita del nuovo cofanetto  titola, su “Gramophone”(la “bibbia” dei mensili per gli amanti di musica classica di lingua inglese di allora, e non solo) “Macbeth without Lady”. 

La Lady in questione è Elena Souliotis, soprano greco che all’alba degli anni ‘60 aveva fatto gridare al miracolo di una “Nuova Callas” per alcune esibizioni tra il ‘62 e il 64, che avevano lasciato molti a bocca aperta. Purtroppo, anche per studi incompleti, come per temperamento piuttosto disordinato e vorace, già nel “Nabucco” 1966 Scala Milano, si percepiscono irregolarità vistose: e la voce va a tronconi.

In questa(eccellente) registrazione Decca il cammino di autodistruzione è sostanzialmente compiuto: è un pur forte temperamento, poco può con lo sfaldamento vocale dilagante. 

Quello che è accaduto a Milano è qualcosa di simile, pur se non così tragico, come si evince da tanti commenti troppo a caldo che accompagnano il pronto riversamento audio su Youtube. 

Per strano caso del destino il cammino delle 4 Lady Macbeth: Callas 1952 De Sabata, Verrett 1975/6 Abbado, Guleghina 1997 Muti, 2021 Netrebko Chailly, stando ai documenti, è un cammino in progressiva discesa.

Anzitutto dizione: Le lettere della Callas nel libro di Tom Volf ci fanno vedere, in questi anni, ancora alcuni scivoloni di linguaggio, pur migliorato dal ‘47 all’arrivo a Verona. Invece la lettura del Primo atto è superlativa. Verdi visitò i Manicomi, alla ricerca delle espressioni delle donne dalla psiche dissociata: questo si deve far sentire, fin dalla lettura del messaggio. L’accento della cantante è perfetto, da scassata psichica. Quello che segue...è mito. Punto. 

Ventitré anni dopo la Verrett(ad avviso di chi scrive un gradino al di sotto, ma sempre molto in alto) ci offre una cerebrolesa sì, ma più insinuante, velenosa e sinistramente seducentissima: un semi-miracolo che viene replicato dieci anni dopo in un Video Decca con il giovane Chailly.

Passano altri 23 anni: ed eccoci a Muti con la Guleghina. Personalità meno carismatica, ma efficace nel ritrarre una Lady livida, vendicativa, congiurante e infida...nonostante diversi acuti molto tesi, il personaggio lo ha in mano come visione. Nonostante lo strumento sia un po’ duro da gestire. 

Ed eccoci ancora, 24 anni dopo. Il contestatissimo Bruno Vespa, effettivamente alquanto onnipresente su Rai Uno e non solo, tuttavia dice una cosa sulla Netrebko che condivido in pieno “Matronale”: lo stesso vizio interpretativo che notavo nella “Tosca” con Salsi, e nel “Trovatore” da Verona, sempre con Salsi.

E’ una questione di tono che già va male in quei personaggi; ma qui è decisamente peggio. Cosa ti aspetti da una sfasata, esaltata e delirante creatura? La prevedibile tornitura vocale, il canto ampio e rotondo, la emotività dosata con il bilancino dell’orefice? Ciò che potrebbe creare una discreta(e dico solo discreta, nulla più) Amelia o Desdemona, qui non ci azzecca per niente. 

Posso anche constatare che con il progredire della rappresentazione abbiamo avuto momenti più interessanti: ma, secondo me restiamo a una “Mezza Lady”, per stare sul corretto. 

Non condivido le stroncature su Salsi in Youtube. Bruson, Taddei e Cappuccilli colorano meglio e danno un ritratto più ”ricco” di contrasti; ma il suo coinvolgimento è sincero; lo strumento, a onta di alcune note tese e qualche carenza di fluidità, è uno strumento notevole, sonoro. Anche molte espressioni catturate dalla telecamera sono giuste e pertinenti.

Il Banco di Abradzakov ha “phisique du role” certo, imponente e grandioso; meno la voce, che intanto non è di vero basso (vedi Ghiaurov, Siepi), quanto per il fatto che colora poco come interprete. E’ un ruolo di spessore altamente tragico, ma che Verdi riduce in quantità negli interventi: per cui quelle poche volte che si è chiamati a esibirsi bisogna, come si dice, “lasciare il segno”: indipendentemente dai metri e dalla statura. 

Chailly è andato in crescendo: certamente convincente fin dall’inizio, si è fatto progressivamente prendere dalla temperie tragica, in una continua escalation a sonorità sempre più coinvolgenti e trascinanti. La regia di Livermore ha mixato echi diversi; ci sta un po’ di grandiosità alla Nolan, elementi di Art Deco, stile Metropolis di Fritz Lang,  e ci trovo anche suggestioni ronconiane.

Non amo questi tagli troppo attualizzati, ma tra tante oscenità registiche spacciate per voli di genio, almeno riesco a individuare un certo collegamento con il testo.

Ed ecco, chiedo scusa ai lettori, quelle che secondo me sono state le due gemme, i diamanti della serata. 

Per paradossale che sembri, il MacDuff: tenore, ruolo secondario, con una sola aria e un po’ di battute sparse nella partitura: splendido senza discussioni Meli; teso, accorato, eloquente: starei quasi quasi per accostarlo nientemeno che a Bergonzi!!! Bravissimo. 

E, tanto per cambiare, ma questa volta con una presenza assolutamente dominante quanto coinvolgente, Il Coro Scaligero, onnipresente, onnipotente: Forse “Il” personaggio della serata: per mille motivi. Questa può essere l’Alba, almeno L’Aurora del Post Covid. Siamo ancora dentro il Tunnel: ma si vede l’uscita...laggiù...in fondo.

E questo Verdi in particolare, questo superbo Coro Verdiano, è un po’ come se rappresentasse gli Italiani di buona volontà...indeboliti e stanchi...ma ancora con la voglia di vivere e partecipare, condividere.(Giorgio Gaber: “Libertà è Partecipazione”).

Codicillo finale: la brava soprano che rivestiva il ruolo della Dama della Lady: ne scordo il nome: ha una espressione che “buca” lo schermo, e notevoli capacità: assolutamente da seguire.

Domenico Maria Morace

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