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Billie Holiday, Lady in Satin, Columbia 1958, ristampa 2024

Inciso l’anno prima della sua dipartita, credo giusto considerare l’album una sorta di testamento spirituale da parte di una vocalist straordinaria giunta ad un angolo cieco della propria esistenza, intorpidita non solo dai paradisi artificiali ma anche da rapporti umani che si andavano deteriorando lasciandola sempre più amareggiata, sola, distante anche da quell’entusiasmo che aveva distinto gli anni migliori della sua fulminante carriera.

Da qualche tempo Billie non era più coinvolta in formazioni in quartetto e quintetto, nelle quali a mio avviso aveva dato l’essenza spirituale ed estetica del suo canto così particolare: Lady in Satin è un disco inciso con l’orchestra secondo arrangiamenti “romantici” ben graditi dal grande pubblico, radiofonici al punto giusto, in perfetta locazione per vendite cospicue (come fu) ma intriso di una tristezza abissale, quasi sussurrato in una vocalità jazz di modesta estensione e assolutamente istintiva, quasi un quadro impressionista delle sue tante disavventure  e del suo spleen rispetto allo show business, come confessò nella sua autobiografia “Lady Sings the Blues”.

Il disco (titolo dozzinale, veramente di pessimo gusto) sembra presentare una donna che quasi vuole nascondersi pur desiderando ancora cantare, ma con una grande orchestra, che è fatto molto diverso nel Jazz, poiché farlo con pochi scelti strumentisti significa mostrarsi per intero, senza direttori di ensemble che danno direttive precise, che decidono gli arrangiamenti, che improntano di segni personali ogni brano: certamente Billie non aveva più le forze per imporre il proprio stile, pur da sempre privo dei fuochi d’artificio di una Ella Fitzgerald e semmai vicino alla tormentata vocalità di una Bessie Smith, ricco di umane imperfezioni troppo umane che avrebbero dato vita ad un flou esecutivo oggetto tuttora di studio se non di imitazione.

Anche nel caso di Lady in Satin non ci sono mezzi termini: la Holiday o la si ama o non la si ama affatto, o si ama la sua profonda analisi dei testi che voleva restituire il significato più esatto ad ogni verso, il clima rilassato del suo fraseggio, sorta di “parlar cantando” particolarmente usato negli anni ultimi della sua carriera quando i colori della sua voce divennero alquanto scuri, lignei, crepuscolari, di una maturità espressiva dolente, infelice, quasi avvilita.

Norman Granz, uno dei maggiori produttori discografici d’ogni tempo, le aveva sempre sconsigliato incontri con Big Bands, avendo intuito che ne avrebbero soffocato la gouache intimista, per metterle a disposizione solisti di superlativo spessore (tra loro Lester Young in  primis, poi Harry “Sweet” Edison, Ben Webster, Jimmy Rowles e Red Mitchell) con i quali realizzò performances divenute Classici del Novecento.

Le songs dell’album appartengono al Songbook statunitense, popular music per abbellimenti di archi ed arpe secondo quanto richiedeva l’affaire del tempo, cui prestarono il fianco musicisti eccellenti come J.J.Johnson al trombone, Mal Waldon al pianoforte, Milt Hinton al contrabbasso e Osie Johnson alla batteria nel segno del “Pecunia non olet”. Del resto l’avevano già fatto Frank Sinatra, Ella e perfino Charlie Parker, con esiti a mio avviso tanto discutibili quanto redditizi. Ma, si sa, l’Arte e il Denaro non vanno mai d’accordo (Van Gogh, Mozart, Caravaggio,Poe, Monet, Kafka e cento altri).

Tre giorni per registrare l’album, pochissimi, ma così vollero il produttore Irving Townsend ed il mastro d’orchestra Ray Ellis, cui spettò il mediocre arrangiamento per volontà dei generali della Columbia Records: affare in vista, non c’è tempo da perdere, al di là del Bene o del Male. Nonostante ami fino ad un certo punto questo movimento in basso dell’Anima di Billie, non posso far a meno di tenermelo stretto: I’m a fool to want you, You don’t love what love is e You’ ve changed commuovono per lirismo e senso melodico, ottimi per le platee più vaste ma anche per chi Eleanora Fagan, donna fragile e malata di vita, ce l’ha nel cuore.

Fabrizio Ciccarelli

Lato 1

I'm a Fool to Want You (Joel Herron, Frank Sinatra, Jack Wolf) – 3:23

For Heaven's Sake (Elise Bretton, Sherman Edwards, Donald Meyer) – 3:26

You Don't Know What Love Is (Gene DePaul, Don Raye) – 3:48

I Get Along Without You Very Well (Hoagy Carmichael) – 2:59

For All We Know (J. Fred Coots, Sam M. Lewis) – 2:53

Violets for Your Furs (Tom Adair, Matt Dennis) – 3:24

Lato 2

You've Changed (Bill Carey, Carl T. Fischer) – 3:17

It's Easy to Remember (Lorenz Hart, Richard Rodgers) – 4:01

But Beautiful (Johnny Burke, Jimmy Van Heusen) – 4:29

Glad to Be Unhappy (Lorenz Hart, Richard Rodgers) – 4:07

I'll Be Around (Alec Wilder) – 3:23

The End of a Love Affair (Edward Redding) – 4:46 [mono CL 1157 only]

Bonus tracks ristampa 1997

I'm a Fool to Want You [take 3 stereo] – 3:24

I'm a Fool to Want You [take 2] – 3:23

The End of a Love Affair The Audio Story – 9:49

The End of a Love Affair [stereo] – 4:46

Crediti

Billie Holiday: voce

Ray Ellis: arrangiamento e direzione d'orchestra

George Ockner: violino

David Soyer: violoncello

Janet Putnam: arpa

Danny Bank: flauto

Phil Bodner: flauto

Romeo Penque: flauto

Mel Davis: tromba

J.J. Johnson: trombone

Urbie Green: trombone

Tom Mitchell: trombone

Mal Waldron: pianoforte

Barry Galbraith: chitarra

Milt Hinton: contrabbasso

Osie Johnson: batteria

Elise Bretton: coro

Miriam Workman: coro

# in ascolto su https://open.spotify.com/intl-it/album/5kk2i89mjtyibhPNCKHcfu?autoplay=true

    

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