Giuseppe Venezia, I’ve Been Waiting For You, Gle.AM Records, 2024
Tra gli appassionati del jazz si sta diffondendo un pericoloso virus, quello del cercare a tutti costi la cosiddetta “novità”, i suoni nuovi in poche parole, ignorando che nella musica, come in tutte le arti, i processi d’innovazione necessitano di molti decenni, a volte secoli, per poter esprimere segni di profonda diversità: a tale convinzione rispondo citando il melodramma ottocentesco, l’espressionismo pittorico, il cinema neorealista, l’ermetismo, e qui mi fermo per brevità. Del resto mi sembra che questa sia l’opinione in proposito di tanti bravi musicologi: non penso di dire nulla di originale, per esser chiari e onesti.
Non è forse vero che nelle Blue Notes non di rado viene spacciato per nuovo il lascito del Free di Ornette Coleman, John Coltrane e degli Art Ensemble of Chicago, risuonati e ribolliti da miriadi di epigoni, ben pochi all’altezza di tali maestri, che divagano dissonanze e presunte difformità calate in (si perdoni la forza dell’espressione) imbrogli musicali?
Non è forse vero che reinterpretare Debussy, Verdi, Pollock, Ungaretti, Ginsberg, Mann, Ellington, Davis e Parker non è né reato artistico né banalità estetica, bensì un continuare ad ampliare repertori d’immensa bellezza dando loro vita moderna, attualizzazione secondo la sensibilità odierna secondo Pathos e Dedizione?
Ecco, questo accade nell’album del bravo contrabbassista Giuseppe Venezia con quattro ottimi interpreti (non esecutori) ricchi di idee, gradevoli volubilità, shifters originali e piacevoli.
I’ll been waiting for you è un disco denso di passione, molta passione, per il Bop, ed i rimandi storici sono chiari e privi di inflessioni declamatorie che, sinceri ed eleganti, lasciano godere appieno di bella musica: già, perché o si suona bene o si suona “insomma”, non c’è altra via.
Personalmente confesso d’aver ascoltato la performance tre volte di seguito battendo il ritmo senza neanche accorgermene, lasciandomi andare alla memoria delle virtù pianistiche di McCoy Tyner ed Errol Garner (energetico ed eclettico Bruno Montrone), all’esplosivo soggettivismo di Clifford Brown e Freddie Hubbard (Fabrizio Bosso quando c’è si sente, eccome!), al caleidoscopico astrale di Trane e Benny Golson (di volume e di lineare meditazione il sax tenore ed il flato di Attilio Troiano), e, fuori di dubbio, il timing ed lirismo di Venezia al contrabbasso nonché il pulsante dinamismo di Pasquale Fiore alla batteria.
Un disco che si rispetti lascia in noi almeno quattro brani da sentire e risentire: in realtà io ne conto di più, a partire dall’hard bop fluido e magnificamente tessuto dai soli di Bosso, Troiano e Montrone in Messaggeri (va da sé che brilla di luce propria questa bordata di vigore anni 60!), dal tenue lirismo della title track, dal pulsante brillio di Song for Gerald, sino al crepuscolo elegiaco di Just a line from the past sentimentalmente declinato dall’intenso dialogo tromba-sax e dal robusto, aitante, poderoso Blue Bird, ove il quintetto lancia nel Nuovo quanto ha di meglio, autentico e sospeso fil rouge tra un sentire contemporaneo e l’immaginarsi nel futuro.
Fabrizio Ciccarelli
Giuseppe Venezia: contrabbasso
Fabrizio Bosso: tromba
Attilio Troiano: sax tenore, flauto
Bruno Montrone: pianoforte
Pasquale Fiore: batteria
# da ascoltare in https://www.youtube.com/watch?v=-BBCbHHyIqI&list=OLAK5uy_kRF_1n1JgdS5hHyn34IFvsc51POItU6G8&index=3