john coltrane, giant steps

John Coltrane

Giant Steps

Rhino Records 2017 (Riedizione in vinile) Atlantic Records 1960

Giant Steps è uno degli album più completi che il jazz abbia mai conosciuto, il perfetto collegamento tra il post bop e le moderne Blue Notes, non ancora anticamera di quel Free che brucerà velocemente gli anni 60 di John Coltrane.

 

Qui avvertiamo un Trane figlio incoerente di Dexter Gordon (come nelle incisioni con Miles Davis, Kind of Blue innanzitutto, Columbia 1959), un Trane colto da improvvise illuminazioni di assoluta forza ed originalità, fluttuando di continuo arpeggi in semicrome, che muovono ascendendo a spirale secondo un senso armonico evolutivo, e “cortine di suono” complesse e acuminate. Nel 1959 il sassofonista raggiunse una prima maturità scegliendo una sonorità uniformemente intensa su un registro di tre ottave, abilissimo nelle sottili e struggenti emozioni di Naima, archetipo di tante ballads dall’atmosfera lunare e introspettiva estremamente vicina alla tranquilla modestia del suo carattere pensoso e alla profonda ricerca spirituale che dopo 5 anni incontreremo in A love supreme (1), quando l’elasticità del suo pensiero verrà sommersa dai tormenti psicofisici dell’eroina, madre-amante-sorella adorata e maledetta nelle contorte asimmetrie di performance visionarie e, a quanto egli stesso affermò, ispirate all’Islam più esoterico, quando il movimento Ahmadiyya sarà Cool per i suoi fratelli in fede Yusuf Lateef, Art Blakey, Ahmad Jamal, Sahib Shihab, McCoy Tyner e  Pharoah Sanders [cfr. Kulu Sé MaMa, Expression e Selfnessness (2)].

L’Incipit e Nome del disco,”Giant Steps”, racchiude i vertici emotivi del fremere ritmico della sua voce strumentale travolgente, energia pura nell’inesausta esplorazione delle trame accordiali e nell’immergersi nei meandri dell’armonia, racconto multidirezionale di una vita dal profondo senso del collettivo, della condivisione con formidabili artisti quali Tommy Flanagan al pianoforte, Paul Chambers al contrabbasso e Art Taylor alla batteria, alternati solo in “Naima” dalla sublime eleganza della tastiera di Wynton Kelly e del drumming di Jimmy Cobb.

Trasformata la sua Black Music e mediato il suo Blues fin dalla metà del 1957 nei sei mesi con Thelonious Monk, tornò con Miles Davis di cui fu punto di forza fino al 1959, proprio l’anno in cui ideò questo album e probabilmente sentì che era arrivato il momento giusto per esprimere la sua voglia d’indipendenza stilistica e compositiva. Certamente nel disco c’è traccia consistente delle esperienze onnivore del periodo Prestige (1955-1958) e, al contempo, della mobile densità melodica delle incisioni per l’Atlantic (1959/60-1961) che, a ben ascoltare, fluiranno nelle problematiche esplorazioni degli anni Impulse ( 1961-1967) che lo avrebbero reso uno dei più tormentati musicisti del secondo Novecento, come ampiamente testimoniato, a tre mesi dalla sua scomparsa, dalle due lunghissime tracce visionarie del suo Free più radicale in The Olatunji Concert: The Last Live Recording (23.4.1967, pubblicato postumo dall’Impulse nel 2001; in realtà penultima perfomance poiché si ha notizia di un concerto del 7 maggio dello stesso anno a Baltimora, purtroppo mai registrato).

“Momento di Mezzo” questo album nel quale si rivela il Movimento di Passaggio, forse il migliore dal lato eufonico, cesura fra Passato e Futuro come, tra le varie possibilità offerte dall’interplay e gli stimoli dati dagli alfieri del New Jazz, rivela “Mr.PC”, brano scelto per concludere quel vibrante e caldo immergersi nei “passi da gigante” trovati e intrecciati in una densità gravitazionale pari al suo grande interesse per Einstein e per i testi sacri indù, letterariamente accostabili tanto al “flusso di coscienza” di James Joyce quanto al Caos rabbioso, sarcastico ed iconoclasta di Jack Kerouac. Ma perché proprio il riferimento al maestro del double bass Paul Chambers, virtuoso modello dell’hard bop e del Modale, che (prima di lui solo l’ex violinista Slam Stewart) spesso nei suoi soli usava l’archetto? Forse perché il suo immenso talento possedeva ancora quella mobilità categorica tipica della Musica Classica, forse perché aveva già intuito che le distanze fra i generi erano parole impossibili, forse perché la sua Idea di Musica era tanto universale da non poter escludere nulla che appartenesse alla Conoscenza intesa come Fonte essenziale del suo pensare l’Uomo quale Artefice del Futuro, fine ultimo dell’Arte quale Transizione [Transition (3)] fra il Mondo Immanente ed i segni tangibili della Trascendenza [Ascension,(4)].    

L’inevitabile enfasi connessa ad ogni revival, con la riedizione in vinile audiofilo da 180 grammi di Giant Steps, non avrà mai alcun modo di esistere: gli entusiasmi ai quali si sono mostrati particolarmente disposti i cultori dell’Avanguardia quale “religione solitaria” e gli eruditi del puro hobby per musicofili intransigenti non troveranno in questo album alternative globali alle estetiche del tempo in cui John Coltrane incise i sette brani.

In quegli anni Coltrane non era ancora in deliberata polemica con l’ambiente newyorkese del Greenwich Village o della Fifth Avenue, piuttosto intendeva esprimere le ragioni più interne alla sua personalità irrequieta, instabile nei propositi, animata da una frenetica tensione intellettuale che nelle ultime opere avrà vita in progetti che si accavalleranno, di continuo abbandonati e ripresi, in attività molteplici che non si troveranno risposta se non in performance nelle quali si leggerà chiaro il suo cieco confidare in vastissime e contraddittorie avventure cerebrali.

Giant Steps fu il primo grande successo di Trane, prima incisione per l’Atlantic e primo disco di composizioni da lui scritte, primo vero segno della sua straordinaria capacità d’improvvisare frasi nitide e complesse in una sintassi del tutto personale, primo passo del suo superare l’hard bop per la modernissima discorsività nel jazz modale delle improvvisazioni ipnotiche nelle quali nulla è presente di quel narcisismo che spesso agita chi è consapevole della propria bravura.

Passi da Gigante, e non i primi per Trane, in cui liberare emozione, energia, furore, passione.

In otto anni Trane riuscirà a sconvolgere le Forme del jazz, come Paul Verlaine per il Verso decadente, Vincent Van Gogh e Caravaggio per la pittura, come per il graffitismo metropolitano quel Jean-Michel Basquiat nato pochi giorni dopo la pubblicazione di questo album eccezionale e che con Trane avrebbe avuto molto da condividere; come Mozart, Wagner e Puccini in una Vita maledetta dedicata interamente alla ricerca di se stesso nell’Anima della Musica e nella Musica dell’Anima.

Fabrizio Ciccarelli

Giant Steps - 4:43/ Cousin Mary - 5:45/ Countdown - 2:21/ Spiral - 5:56/ Syeeda's Song Flute - 7:00/ Naima - 4:21/ Mr. P.C. - 6:57

John Coltrane - sassofono tenore, Tommy Flanagan – pianoforte, Paul Chambers – contrabbasso, Art Taylor – batteria; Traccia 6: Wynton Kelly – pianoforte, Jimmy Cobb – batteria

  1. Impulse 1964  
  2. Impulse 1966, 1967 e 1969
  3. Impulse 1970 ma inciso nel 1965
  4. Impulse 1966
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