CHARLES MINGUS
CHARLES MINGUS PRESENTS CHARLES MINGUS
Candid 1960, Poll Winners Records LP, Distribuzione Egea
Se la si vuol raccontare, la storia di questo album come quella stessa di Charles Mingus è un polittico polisemantico composto di vicende plurime e difformi, dense di esperienze musicali complesse e variegate, di rabbia e disperazione, di sarcasmo e risate sardoniche: a dirne anche una minima parte si rischierebbero le mille pagine di inevitabili riferimenti politici, antropologici, filosofici, ad iniziare proprio dalla gestazione lucida e dolorosa di “Charles Mingus Presents Charles Mingus”.
L’acuto critico Nat Hentoff, nome insostituibile della storia del jazz, propose a Mingus, già noto per le sue scelte inconsuete e le sue fantasmagorie avanguardistiche, di incidere alcune session per la sua etichetta Candid, lasciandolo libero di agire come avesse voluto.
Era il 1960: il Bop non era più Bop e basta, l’accostare sempre più il tardo-classico del Novecento a suoni africani, indiani e medio-orientali e soprattutto al Suono della Contestazione Nera, fondeva linguaggi diversi senza alcun pregiudizio. Il risultato sarebbe stata quella complessa Rivoluzione che avrebbe portato alla Fusion, al Funk, all’Hard Bop e, soluzione estrema, allo spirito provocatorio, mordente e acido del Free. Il Free, definizione molto complicata, un Non Stile che avrebbe creato grammatiche sì diverse ma anche tanto differenti fra loro, e con esiti spesso poco convincenti per via della cosiddetta “libera improvvisazione”, dell’atonalità, della frammentazione del ritmo (da una parte le ardite pronunce di A Collective Improvisation di Ornette Coleman e We Insist! - Freedom Now Suite di Max Roach, dall’altra lo “sragionamento” di Sun Ra e Pharoah Sanders, l’esasperazione di certo Archie Shepp, la furia iconoclasta di Albert Ayler ed Evan Parker, ad esempio).
Il Quartetto di Mingus era già di per sé non rispettoso delle regole: il suo contrabbasso policromo mai distratto dal passato, l’alto sax dell’irriverente Eric Dolphy (che qui inaugura la cupa lirica sonorità del clarinetto basso, magia assoluta del jazz moderno), la tromba di un altro diavolo delle Blue Notes, Ted Carson, ed il drumming passionale e ustionante del batterista Dannie Richmond, Maestro che seguirà il Nostro in numerose ed importanti avventure discografiche. La novità? Non c’era il pianoforte, strumento che Mingus conosceva bene, ma che decise di non usare per dare ai propri brani quell’intensità fremente, quella spontaneità che il piano stesso – avvertito nella sua tradizionale melodica completezza- avrebbe sicuramente castrato. Da quel momento, le alte maree delle formazioni pianoless avrebbero inondato il panorama della Musica Libera, talvolta a giusta ragione estetica tal altra un po’ di sguincio e di maniera: ma si sa, all’ Istante dell’Avanguardia inevitabilmente segue il dilagare d’imitatori che spesso non sono in grado di controllare non l’istinto (che controllare non devono) quanto la coerenza con i principi ispiratori, dilagando lampi nerboruti e densi di pericolose trame ideologiche molto approssimative.
Ma questo non accadde a New York nel Live in Studio del 20 ottobre 1960. L’Underdog aveva poesia da dare secondo uno slancio poi ripreso dalla Pop Art di Andy Warhol e Roy Lichtenstein, dalla Beat Generation di Jack Kerouac e Allen Ginsberg e dall’Action Painting di Jackson Pollock, come nella dissacrante Original Faubus Fables, brano di protesta scritto contro il fetido governatore dell’Arkansas Orval E. Faubus, detto da Mingus “fascista supremo” nei versi introduttivi che solo la Voce di un Bastardo come lui poteva declinare in modo così potente:
Oh Lord, don’t let them shoot us / Oh Lord, don’t let them stab us
Oh Lord, don’t let them tar and feather us / Oh Lord, no more swastikas !
Oh Lord, no more Ku Klux Klan !
Come nelle Work Song o negli Spiritual il Bastardo, figlio di un Negro e di una Gialla, si sentiva vomitato sia dai Bianchi che dai Neri in quegli States sudaticci e stitici per Democrazia. Il brano era già stato pubblicato un anno prima su Mingus Ah Um, ma gli era stato impedito dalla stessa Casa Discografica, la Columbia, di pronunciare certe “oscenità”, in linea col buon ordine dell’American Way of Life…ecco perché nel titolo l’aggettivo “original”, a dirne quel che ne fu tolto da una Label comunque prona ai desideri del governo presieduto dall’eroico Dwight D. Eisenhower: ma, per favore, rileggiamo attentamente la Storia di quel Generale Comandante delle Forze Alleate, tanto prode per capacità militari e politico-diplomatiche quanto servo di un Sistema Bianco che palesemente fingeva di dimenticare i Mostri del Ku Klux Klan e del feroce razzismo degli Stati del Sud, alla faccia della Libertà e del Sogno Americano.
Ad aprire l’album il viscerale lirismo della demi-suite Folk Forms No.1 cantato con passione vibrante dallo straordinario duo Dolphy-Curson, il bruno turgore blues di What Love, lettura personalissima ispirata alla seducente What Is This Thing Called Love? di Cole Porter, Caos e Alchimia del Bass clarinet di Dolphy in “flusso di coscienza” con il “pizzicato” del contrabbasso, lo Swing distonico e visionario di All the Things You Could Be By Now if Sigmund Freud’s Wife Was Your Mother (titolo che parla da solo dei riferimenti alla psicanalisi tramite l’intensità dei monologhi liberatori e attentissimi alla partitura originale di Mingus, il cui psicoterapeuta di allora, Edmund Pollock, scrisse le Note per The Black Saint and the Sinner Lady, capolavoro Impulse Records 1963).
Nella realizzazione discografica Poll Winners in LP da 180 grammi tre bonus track. Due vennero registrate nella medesima session ma non incluse nell’LP originale: una struggente ripresa del classico di Harold Harlen e Ted Koehler Stormy Weather, esoterico nelle sublimazioni tipiche del Blues rarefatto, acre e sferzante del Mingus che verrà, e Melody From the Drums, Solo di 9 minuti e più nel quale Dannie Richmond dà prova del Libero Arbitrio e delle potenzialità espressive della batteria moderna. L’ultima, ulteriore lettura di Stormy Weather realizzata a New York nel dicembre del 1954, con la tromba di Thad Jones a tessere la melodia assieme al violoncello di Jackson Wiley ed il Regolo del cordofono del Nostro (e novità importante fu anche quella, documento perfetto per l’evoluzione pioneristica del Genio di Nogales).
«Sono Charles Mingus. Mezzo nero, mezzo giallo… ma non proprio giallo e nemmeno bianco quanto basta a essere identificato come tale. Per quanto mi riguarda mi considero un negro… Charles Mingus è un musicista, un musicista meticcio che produce musica bella, terribile, amabile, maschia, femminile, musica. E ogni tipo di suono: forte, piano, inaudito. Suoni, suoni, suoni, suoni, suoni, suoni, suoni… Uno che gli piace un sacco giocare con i suoni».
L’Underdog si raccontava così ad una Radio canadese, nel bel mezzo della sua Vita sconquassata e maledetta, di quel Male di Vivere lasciato alla Memoria della sua bella e dolorosa autobiografia, Beneath the Underdog (Peggio di un cane bastardo, BigSur 2015).
Personalmente, mi piace ricordarlo così.
Fabrizio Ciccarelli
Charles Mingus bass, leader, voice, composer, vocals
Eric Dolphy alto saxophone, bass clarinet
Ted Curson trumpet
Dannie Richmond drums, vocals
- Folk Forms, No. 1 - (13:06)
- Original Faubus Fables - (09:21)
- What Love - (15:24)
- All The Things You Could Be By Now If Sigmund Freud's Wife Was Your Mother - (08:35)
BONUS TRACKS:
[5-6]: from the same session, but not included on the original LP.
[7]: Thad Jones (tp), John LaPorta (as, arr), Teo Macero (ts), Jackson Wiley (cello), Charles Mingus (b), Clem DeRosa (d, tamb). New York, December 1954.