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Pat Metheny, Letter from Home, Geffen 1989, Vinyl 2022

Quando questo capolavoro di Pat Metheny uscì molti non sapevano neanche chi lui fosse nonostante avesse già pubblicato numerosi album e partecipato ad importanti band nell’ambito del jazz. Probabilmente nessuno si aspettava di andare incontro ad uno dei fenomeni musicali più interessanti ed appariscenti degli anni 90: un disco destinato a cambiare la storia delle Blue Notes, dell’Ambient Jazz, della Fusion e del Jazz Rock, per quanto contano le definizioni nell’ambito della musica.

Metheny aveva trascorso molti mesi in Brasile ed Argentina, e di questi soggiorni Letter From Home è sicuramente la testimonianza più diretta e lirica nelle simmetrie ritmiche e negli accenti sui movimenti dispari del tempo. Riflettendo sul nome dell’ensemble notiamo come si parli di un Group e non di una Band o di un sestetto: Group, come si dice nel Rock, è l’ ambiente nel quale si condividono le esperienze, con la libera partecipazioni di tutti i musicisti, pur se il front man è sempre lui, e si sente con chiarezza.

L’atmosfera dell’album è sospesa su un collage musicale distinto dall’amalgama tra due ambiti apparente lontanissimi, il Funky e l’Easy Listening, che dopo questa realizzazione discografica lontani lo saranno sempre meno, attraverso un Meltin Pot di Burt Bacarach, Jim Hall, Jeorge Ben, Gilberto Gil e i Manhattan Transfert, ideato nel “laboratorio” di una ricerca musicale molto originale, che darà il via a tante “riprese” sia nell’ambito della discografia del chitarrista americano che nelle moltissime avventure di centinaia di jazzisti, e non solo jazzisti . Su 10 brani 7 sono scritti da Pat Metheny, 3 da lui con Lyle Mays, uno da quest’ultimo e uno da Pedro Aznar, grandissimo vocalist il cui timbro vocale solare viaggia per l’intero album, conferendogli una “tinteggiatura” inconfondibile nei corali emotivi e irreali, estesi e rapiti da una narrazione ispirata, alata, particolarmente fantasiosa nella cura degli armonici.

Senza Perdo Aznar Letter from Home non avrebbe mai avuto quel timbro piacevole ed onirico per il quale è giusto conferire al disco la corona d’alloro di precursore di un nuovo Sound ibrido d’assoluta innovazione. Del resto, è anche vero che se non ci fosse stato un raffinato creativo come Lyle Mays probabilmente non sarebbe mai esistito questo Pat Metheny, anche se le eleganti doti del tastierista tendono ad esser dimenticate nell’analisi tecnica e nella memoria dei tanti critici che posero questo album in vetta alle classifiche non appena venne pubblicato, elogiando, giustamente, quelle declinazioni sud americane che  fluttuano tra le composizioni lineari di Metheny ed i  composti pentagrammi di Lyle Mays, decisamente più multiformi e strutturati, come nello splendido Incipit di Have You Heard, nel viaggio intimo e crepuscolare di Spring Ain’t There, nel magnifico New Age di Dream of No Return, impreziosito dall’aria  lirica e raggiante di Pedro Aznar, un vocalist, ripetiamo, di classe assoluta e di sensibilità modernissima.

Che poi Pat Metheny abbia talvolta intrapreso strade incaute, vuoi per volontà d’innovare che per inspiegabili passioni per un Free in definitiva del tutto estraneo al suo modo di avvertire la musica (ci riferiamo alla triste mediocrità dell’ “Orchestrion Project” del 2013 e all’orribile “Song X” del 1986 con Ornette Coleman), resta nel desiderio di un grande chitarrista  di cercare a tutti i costi prove da provare, tele impressionistiche cui dar nuova prospettiva, rischiando di fatto la cacofonia ed il pretesto gratuito; fatto sta che, abbandonando ben presto, grazie al cielo, tali progetti, se ne sia pentito tornando, con alterne fortune, ad incisioni più vicine al suo stile (con Brad Mehldau nei due dischi per la Nonesuch Records del 2006 e 2007, con ilil Quartet Live della Concord Jazz Records del 2009 con Gary Burton, Steve Swallow e Antonio Sánchez, decisamente disallineati rispetto alle ultimissime discutibili prove con tutta probabilità concordate con la sua casa discografica per meri motivi economici, delle quali preferiremmo non parlare, lasciando agli Haters il compito di dire quanto Metheny si sia perduto in quel dejà ecoutè del quale preferiamo omettere circostanze, ricordando piuttosto la magnifica stagione di dischi come questo e sperando nella pronta rinascita di un immenso chitarrista dalla personalità enigmatica perennemente attratta da interessi spesso distanti se non opposti tra loro.

Preferisco ricordare quanto siano di alto livello sia dischi di atmosfere morbide come “Watercolours” e “As fall Wichita, So falls Wichita Falls”  che quelli ideati dalla creatività di una fusion multietnica (quelli col PMG), secondo alcuni un po’ troppo attratti da risvolti commerciali come nel caso di “Travels”, “Speaking of Now” e “We live here” – ma io non la penso affatto così, sia o non sia Metheny un affabile intrattenitore vicino alla World Music o alla New Age o anche architetto di pop song come “This is not America” per la voce di David Bowie (scusate se è poco) o l’improvvisatore incandescente di un free visionario come in “80/81” o l’elegante jazzista del trio con Charlie Haden e Billy Higgins in omaggio alla tradizione delle Blue Notes (“Rejoicing”, ECM 1984).

Qual è, dunque, il vero Pat Metheny? Probabilmente è un musicista incredibilmente dotato fin troppo incline all’autoindulgenza, curioso, sempre in cerca di novità (come possiamo considerare questo un male?), alquanto scapestrato quando non ci sia nessuno a stingergli le briglie (Lyle Mays, Brad Mehldau, Joni Mitchell, Gary Burton e Charlie Haden, ad esempio). Probabilmente Metheny è tutto questo, un mosaico di volti diversi del tutto reali e del tutto sinceri, uno dei pochi che finanzi con i proventi delle cosiddette incisioni “facili” progetti dall’interesse di mercato assolutamente nullo (come egli sicuramente sa), un prisma vivente di contaminazioni tra colto e popolare, di atmosfere sofisticate in melodie aperte sorrette da accordi semplici organizzati in modo estremamente raffinato, come nei costrutti ipnotici di Country Poem, Sueno con Mexico e Fallen Stars dell’eccellente album ECM “New Chautauqua”, tenuto sotto attento controllo dal patron Manfred Eicher, che fu tra 1970 e 2010 un ottimo produttore, ostile ad andature smielate e sottofondi banali e ordinari, poi perdutosi, con nostro sommo dispiacere, in irragionevoli disegni discografici veramente di bassissimo livello.        

Tratte le dovute conclusioni continuo a pensare che Pat Metheny sia un compositore-arrangiatore di cui il Jazz non può far a meno per creatività e brillantezza strumentale.

Brani da scegliere? Ad esser avari, la splendida astralità di Have You Heard, la fluttuante spazialità di Spring Ain’t There, di 5-5-7 e di Slip Away, come l’intima pagina crepuscolare di Dream of no Return, sebbene il disco meriti ampiamente d’esser ascoltato tutto e d’esser conservato tra i “preferiti” di chiunque ami il Jazz anche al di fuori del Jazz poiché il Jazz è fatto di questo: leggere il contemporaneo, ibridare l’easy listening con arrangiamenti Blue ed improvvisazioni sui colori originali, come insegnarono Duke Ellington, Miles Davis, Bill Evans, Keith Jarrett e John Coltrane.            

In merito agli assoli sottolineiamo come Metheny sia stato uno dei primi a comprendere le enormi potenzialità del Synth per chitarra (Roland) ridefinendo la sintassi dello standard e i confini analitici del suo strumento, la nota Pikasso elettrificata sulla quale venne montato un pick up esafonico in grado di collegare la sei corde al sistema Synclavier per ottenere i famosi suoni elettronici tipici del suo Groove.

Collocatosi a metà strada tra "First Circle" (ECM 1984) e "Still Life" (Geffen 1987), Letter From Home si presenta vario e radioso, per così dire  “spensierato” e ricco di ritmi accattivanti provenienti dalla musica brasiliana, il tutto adornato dallo splendido Cantato di Pedro Aznar e dalla straordinaria sezione ritmica formata da Paul Vertico alla batteria ed alle percussioni, da Pedro Aznar, oltre che alla voce alle percussioni, alla marimba, al flauto andino, al vibrafono ed al Charango (piccola chitarra andina di ispirazione europea con cinque corde doppie da suonarsi a pizzico) e da Armando Marcal alle percussioni.

Indubbiamente Letter from Home può essere considerato come uno dei punti più alti della carriera di Metheny. Un album che scorre piacevolmente tra Cantabili molto leggeri, vicini ad un pop jazz molto raffinato e ad altre songs più marcatamente appartenenti alle moderne Blue Notes, imperdibile nei 60 minuti di un eccellente easy listening da denominare in tal modo solo per superficiale brevità.

Fabrizio Ciccarelli

Personnel

PAT METHENY: Chitarra elettrica e acustica. Chitarra 12 corde. Chitarra soprano o ottava (piccola chitarra accordata un'ottava sopra la chitarra regolare dalle corde più sottili dal suono simile al mandolino napoletano). Tiple (piccola chitarra colombiana che monta quattro cori di triple corde metalliche con accordatura scalare e tastiera non libera (ossia con capotasti) usato solitamente nella musica popolare del Sud America. Chitarra sintetizzatore e Synclavier. LYLE MAYS: Piano, Organo, Tastiere, Fisarmonica, Tromba, Synclavier (un potente sintetizzatore digitale/campionatore musicale, che permette una notevole profondità dei timbri, versatilità nella creazione e produzione di suoni, e nella velocità d'uso). STEVE RODBY: Basso elettrico e acustico. PAUL VERTICO: Batteria, Caja e percussioni addizionali. PEDRO AZNAR: Voce, Chitarra acustica, Marimba, Vibrafono, Sassofono Tenore, Charango (piccola chitarra andina di ispirazione europea con cinque corde doppie da suonarsi a pizzico) , Melodica, Flauto Andino, percussioni addizionali. ARMANDO MARCAL: Percussioni.

Track listing

All tracks are written by Pat Metheny except where noted.

Side one:

  1. "Have You Heard" 6:25
  2. "Every Summer Night"      7:13
  3. "Better Days Ahead"     3:02
  4. "Spring Ain't Here"     6:55
  5. "45/8"     0:56
  6. "5-5-7" Metheny, Mays     7:54

Side two:

  1. "Beat 70" Metheny, Mays     4:53
  2. "Dream of the Return" Spanish lyrics by Pedro Aznar     5:25
  3. "Are We There Yet" Mays     7:55
  4. "Vidala" Pedro Aznar 3:04
  5. "Slip Away"     5:24
  6. "Letter from Home"     2:33

Da ascoltare in https://www.youtube.com/watch?v=eyVSIexjSnE&list=PLMMXmIm0UiczCS3k8WrNASyo8kZFOl_F6

 

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