Luca Flores, Innocence, Auand 2019
La Luce ed il Buio nella vertigine dell’esistenza
Della breve esistenza di Luca Flores, dei suoi sogni, delle sue speranze, del suo pianismo assorto e lieve e viscerale, del suo “male di vivere”, del suo autolesionismo che lo portò al ferimento di un mano e di un orecchio con la conseguente perdita dell'udito, della criptica furia che lo condusse al suicidio nel caldo “nido” della sua casa a Montevarchi, della sua volontà di poesia in un mondo in cui non si è mai riconosciuto, è testimonianza il doppio cd “Innocence” edito da Auand: sedici brani inediti incisi tra 1994 e 1995 ritrovati tre anni fa, sedici sensibilissime escursioni di un uomo delicatissimo attratto dalla bellezza che riuscì ad intuire nelle note dei classici del jazz; una bellezza che riuscì, per qualche tempo, a divenire melodia vitale e temporanea salvezza.
Interessante e corretta la scelta discografica di dividere i brani in due cd: il primo con quattro standards e tre originali che il pianista non aveva mai registrato prima; il secondo con ben nove alternate takes che, a livello interpretativo, si dimensionano come pari a quelle pubblicate in dischi precedenti.
Paolo, il fratello di Luca, ricorda, nel bel booklet che accompagna l’album, che questi brani erano stati pensati dal pianista per un disco dedicato alla sua infanzia in Mozambico, che avrebbe avuto titolo proprio “Innocence”. Le prime erano state registrate nell’estate di quell’anno, con l’intenzione di svilupparle per un organico esteso, per un melting con la significativa presenza “afro” di percussioni e di archi “occidentali”, la cui vocalist avrebbe dovuto essere la straordinaria “Mama Afrika” Miriam Makeba. Difficilmente attuabile l’ambizioso progetto, si optò per un piano solo (“For Those I Never Knew”, edito da Splasch Records), con l’aggiunta di nuove tracce registrate il 19 marzo 1995. Luca sarebbe scomparso dieci giorni dopo. Non è dato sapere se la scelta di questi brani sia stata un testamento spirituale voluto razionalmente e, francamente, non lo penso affatto. In ogni caso “Innocence” scelse Luca: l’Innocenza di un’Infanzia come “età dell’oro e della quiete” che non è difficile leggere come dato psicologico essenziale della sua filosofia, sicuramente facilitati dall’elementare descrizione del disegno gutturale della copertina (lampi di luce in campo nero che terminano nell’ipnotico tribale di occhi rossi su un volto appena accennato) e dai versi scritti sul chiaroscuro di una foto di profilo (“Fuochi d’arancio e gialli/presagi di domande future/e risposte lontane/prendevano forma/nel verde bagliore/dentro di me”).
Luca Flores suonò spesso a Roma: lo incontrai in uno storico Club tra Lungotevere e Piazza Venezia. Un aperitivo parlando dei suoi insicuri progetti e dei suoi ricordi sulle collaborazioni con Chet Baker, Massimo Urbani, Lee Konitz, Enrico Rava, Muhal Richard Abrams e Tony Scott. Nomi, a quei tempi, con un passato “tosto” ed un presente alquanto agitato. Qualche sorriso nelle pause dei suoi concerti (ma “concerti” non è termine adeguato a definire le sue performance, piuttosto “colloqui” tra monologhi ed improvvisi dialoghi) negli umidi accoglienti scantinati dell’Urbe, frequentati da gente di sincera passione e tanti, tanti jazzisti senza “puzza sotto al naso”. Qualche parola con uno che di parole ne avrebbe avute da dire tante, ma che non uscivano, non uscivano mai, perché le Note erano le sue parole, quelle “notazioni” fisiche e mentali, equilibrate e disequilibrate in variabili inattese ed inattendibili. Quando suonava, Luca Flores mi sembrava un genio del pianoforte, un artista colto e sottile che avrebbe potuto dipingere tele postimpressioniste o scrivere racconti kafkiani, accarezzando il tutto per ridisegnarlo nelle melodie che più amava, in fondo semplici e dirette come quelle di Bud Powell, Billy Strayhorn, Charlie Parker, George Gershwin e Jerome Kern, comunque punteggiate, in aperta tempesta autobiografica, dalle irrequiete teorie di Thelonious Monk (Work) e dalla originalità compositiva dei propri pentagrammi, per così dire “autoanalitici” (Blues, Ladder, Silent Brother, soprattutto).
Solo in Piano Solo (“Piano, solo”: il film del 2007 di Riccardo Milano con un bravissimo Kim Rossi Stuart ad interpretare il Solo esistenziale del pianista siciliano). Solo in un solismo d’emozione immensa, in una prospettiva profondamente solitaria che richiama le ricerche-richieste metafisiche di Giacomo Leopardi, Bill Evans, Dino Campana, Massimo Urbani e Charles Baudelaire. Un Piano Solo in cui Flores è solo col Blues, col Bop e con le morbide spirali Swing di continue variazioni rimiche (fra tutte: Donna Lee del Bird Parker e Strictly Confidential di Bud Powell); spirali che inevitabilmente precipitano nell’ incontro col buio luminoso di Kaleidoscopic Beams, song intima e bellissima, delicata e forte negli accenti e nella misura emotiva di un quoziente umano tanto fluente quanto complesso, sfiorato sui tasti come un alito di purificazione (“catarsi”, a dire in linguaggio aristotelico) nel quale perdersi in un rito orfico e misterioso di ricerca di purezza, la sommessa articolazione vocale di Luca in un canto brevissimo e imperfetto, imperfetto e perfettamente lineare con il coinvolgente e meraviglioso spontaneo lirismo di un artista, a dirla con Nietzsche, “umano, troppo umano”.
Fabrizio Ciccarelli
CD 1:
Strictly Confidential; Broken Wing + Lush Life; Blues; Work; Donna Lee; Search for the Silver Lining; Kaleidoscopic Beams.
CD 2:
Ladder; But Not for Me; Coincidenze #1; Max 2 Supersoul; Look for the Silver Lining; Coincidenze #2; Leaving; My Ideal; Silent Brother.
Luca Flores: piano.
In ascolto qui: https://www.youtube.com/watch?v=VFYHaElwFUc&list=OLAK5uy_nypAiNOale7manEsNKwEmfTpE7xQcU334