Antonio Pappano, Turandot, Warner Classics 2023
SE “UNA RONDINE FA PRIMAVERA”
Non siamo quasi più abituati a recensire novità di alto livello nella Musica Sinfonica e Lirica.
Inutile negarlo: dato per scontato che da molti anni a questa parte nuove registrazioni di rilievo si rintracciano con il contagocce, certo gli anni da Covid hanno, se si può dire, dato il Colpo di Grazia, in senso metaforico, a un “corpo” già agonizzante.
Se non ricordo male anche il Direttore di questo sito mi diceva cose molto simili per la musica Jazz.
Consultandolo, il sito, continuo a vedere, come sempre, anche con un filo di noia, che le ristampe a vario titolo e in vario formato di nastri almeno 40/50ennali (e dico almeno!) continuano ad attrarre la maggioranza sia degli amanti del Jazz come quelli della Classica e del Melodramma.
I pur sparuti giornali settoriali, con le vendite ridotte a male cronico, cui adesso ci si aggiunge il dramma del reperimento della carta, tentano, pietosamente, di tenere l’ attenzione su etichette e repertori davvero esili in termini di vendite e pubblicità (“esili” è dolce eufemismo!).
Quando ho visto in negozio questo cofanetto, ho avuto un mezzo sussulto. A fiuto, e con 50 anni di ininterrotta passione per il Melodramma, ho percepito l’importanza e il valore di questi 2 Cd.
Intanto per la rarissima scelta di adottare la “Terza Via” come Prima; quella del Finale Integrale di Alfano, che Toscanini (“more solito”) aveva scorciato di 100 battute (e da allora ripreso “mutilo” nella stragrande maggioranza delle edizioni Live e in studio). La “Seconda via”, quella della Ricostruzione filtrata da Berio non mi dispiace, ma forse “tira” un po’ troppo Puccini verso il Pieno Novecento. Certo, la “cesura” dopo la morte di Liù si sente sempre; ma è grande merito di Pappano riagganciare musica e atmosfera all’originale integra trama operistica, dando meno enfasi alle ultime battute, diciamocelo, sempre abbastanza hollywoodiane anni ‘20, alla De Mille.
Pure, “Turandot” necessita di spazi enormi, e impone un’ orchestrazione spesso colossale come, al polo opposto, ripiegamenti verso sonorità ovattatissime e soffuse: oltre a richiedere ai protagonisti principali bordate di suono e pianissimi in varia misura.
Limitatamente alla parte orchestrale e corale per me restano le registrazioni di Karajan con i Wiener Philharmoniker (1981 Deutsche Grammophone) e Mehta (1972 Decca) i riferimenti assoluti.
Ma Pappano con Santa Cecilia si guadagna, dal mio punto di vista, una nobilissima medaglia d’ argento. Paga pegno per una timbrica orchestrale molto efficace ed efficiente ma, in tutta sincerità, non così seducente come le “sorelle regine”.
D’altro canto, ad esempio, guardate la copertina della edizione DGG 1981...è la Cina di “Marco Polo”, in senso lato(oppure, potrei dire, della prima mezzora dell” Ultimo Imperatore” di Bertolucci, immota attraverso lo scorrere del tempo, nella Città Proibita ancora all’alba del 20° Secolo.
La Copertina non è stata scelta a caso: 3 colori: il tono avorio della carnagione della Principessa di Morte, il nero appunto del suo Male dominante, la Necrofilia Compulsiva, e la scritta in rosso sangue, appunto la sostanza del dolore e della morte.
Ed eccoci alla musica e alle voci: assolutamente ottimo, forse a un passo dalla perfezione, il Coro diretto da Piero Monti, e, dentro di esso gioiello in gioiello, il coro delle voci dei bambini (...ma quanto è importante il Coro in Turandot, sembra volerci convincere Pappano!).
E, facendo il cammino al contrario, voglio parlare delle poche perfette battute di uno dei 3 ministri (comunque bravi gli altri due), il Ping di Mattia Olivieri, chiarissimo, acido e perfido, assolutamente ideale per il ruolo: mi ricorda lo stupendo “Sprechgesang”, il cantare recitato di Gerhard Stolze tenore wagneriano e straussiano di personalità debordante, perfetto contraltare dell’Heldentenor.
Non molte le battute per Timur, il padre di Calaf, basso (Puccini ha grossi problemi con i bassi, sempre: è incurabile!) ma stupende, affidate a Michele Pertusi, che sta compiendo davvero una evoluzione copernicana; dal Rossini serio di partenza, a Donizetti e Bellini, a Verdi (e il Verdi di “Don Carlo”!!!); e ora un magnifico Timur, dove solennità, dramma e pathos convivono splendidamente.
Se tra i ruoli da comprimari abbiamo tali gemme, non oserei pensare cosa mi aspetta nel trio dei protagonisti...ma come si dice: “non tutto è oro ciò che luccica”, ahimè, soprattutto sul versante femminile.
Il Calaf di Kaufmann forse è un po' indebolito in alto, ha perso un po’ di colori, e noto un incipiente ingrigimento vocale. Ma l’interprete stavolta è assolutamente ottimo e canta in un ottimo italiano, dando rilievo a molte frasi nei medi e nei piani, davvero di gran scuola: se non il suo ruolo ideale, in ogni modo un esito notevole. Problemi di “confidenza” con la nostra lingua accompagnano sia la Liù della Jaho che la Turandot della Radvanovsky: la prima si rifugia nei soliti vocalizzi lirici ad alta quota, con un timbro ancora candido, ma, così pare a me, a senso unico. Per chi capisce ciò che dico, potrei avvicinarla all’ incantevole Manon della Caballè (1971 EMI) con Domingo e Bartoletti. Suoni paradisiaci, a momenti centratissimi, ma il personaggio sta a metà. E per averlo completo bisogna tornare dalla Tebaldi e dalla Scotto degli anni migliori.
Turandot ha nella soprano naturalizzata americana anche in questo caso una mezza resa: l’accento da tigre ci sta, le impennate forsennate (passeggiate per la Nilsson), anche, pur se a prezzo di suoni un po' asciutti e tesi (“calci possenti sul diaframma”). Ma resta il fatto che manca la piena comprensione della lingua. Certe frasi hanno un senso compiuto, altre no. Può anche darsi che nel Terzo Atto ci siano stati suggerimenti illuminanti di Pappano, qualcosa sui “p” e “pp” esce fuori, che non sia solo suono. Si può discutere se siamo al 50 o al 60%: insomma, manca un pezzo, un pezzo grosso.
Nonostante questo, insisto, abbiamo davanti, nel suo complesso, una bella edizione.
Come in tutti i capolavori, particolarmente nel Melodramma, non esistono edizioni “al 100%”. Non lo è Mehta, che ha qualche debolezza nel Cast: men che meno Karajan, nel 1981 già molto meno predisposto a “dialogare” con i cantanti di quanto non facesse ancora pochi anni prima, una parte orchestrale sublime, un ottimo coro, e cantanti, nomi a parte, forse imposti per il Mercato, ma male assortiti.
Evviva Pappano!
Domenico Maria Morace
Antonio Pappano e l’Orchestra dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Sondra Radvanovsky (Turandot), Jonas Kaufmann (Calaf), Ermonela Jaho (Liu), Mattia Olivieri (Ping), Gregory Bonfatti (Pang), Siyabonga Maqungo (Pong), Michele Pertusi (Timur), Michael Spyres (Altoum) e Michael Mofidian (Mandarino)