MARIA ULTIMO ATTO 

“Maria”, regia di Pablo Larrain, sceneggiatura di Steven Knight, con Angelina Jolie, Valeria Golino, Haluk Bilginer, Alba Rohrwacher, Pierfrancesco Favino, Kodi Smit-McPhee (2024) 

Dopo il successo ottenuto 8 anni fa con “Jackie”, Larrain, per la terza volta, ci mostra il “ritratto” di un personaggio femminile, “glamour”, di estrema notorietà, per circa un ventennio, dalla metà degli anni 50, a fasi alterne, fino alla morte nel 1977. Ricordo che in sala, alla proiezione di “Jackie” la tensione densa che percorre la pellicola esplose davvero nella scena al Dealey Plaza del 63. I colpi che uccidono John F. Kennedy, inseriti in un contesto di misteriosa e crescente inquietudine, fecero quasi saltare sulle poltrone diverse persone, me presente. Come il ritratto compiutamente contraddittorio della protagonista, soprattutto nelle scene dove impone al cronista di scrivere tutto ciò che racconta, decidendo cosa la massa deve e cosa non deve sapere. 

Certo abbiamo davanti un regista con grandi qualità, maestro di atmosfere tese e cupe, senza dubbio. Ora,il punto è questo, secondo chi scrive. Con “Spencer”, anno 2021, il “gioco” riesce sì è no a metà. Non ci sono “sfoghi”, “Acuti”. Lady Diana, in quel tremendo Natale 1991, è totalmente soffocata da un rituale, pur se privato, schiacciante, soffocante, ossessivo.  In senso “pittorico”, potrei esaltare l’uso ricchissimo e espertissimo della ricca gamma dei Grigi, particolarmente quelli scuri; ma ne esce fuori una pellicola, in questo senso, sostanzialmente monocroma, di base. 

Ora, per il terzo ritratto femminile, c’è un’ idea di base originale e molto stimolante. Solo l’ ultima settimana di vita della Callas (personaggio) in realtà è un viaggio nella psiche e nei ricordi di oltre 30 anni di Maria (persona). 

Nell’appartamento “regale” di Parigi, si muove una Jolie anche essa di aspetto “regale”, ma, diciamo così che, come Anna Bolena, è lo spettro dell’inconscio di Diana; qui lo spettro dell’inconscio, dal punto di vista lirico, è il finale di Traviata: Violetta divorata dal male incurabile. E Maria, divorata dalla solitudine, schiacciata dal peso dei ricordi, dalla dipendenza di massicce dosi di Mandrax e dalla lotta disperata con uno strumento distrutto, la voce, magari proprio quando sente di rivivere davvero appieno quei personaggi che le diedero la celebrità. 

Milano, Teatro alla Scala, Maggio/Giugno 1959. Dopo il grande successo di “Norma” 1954 in versione monofonica, la Voce del Padrone, sfidando (e perdendo la sfida) con le stupende incisioni liriche Decca stereofoniche contemporanee, votata oramai alla stereofonia, tenta di “bissare” il successo di 5 anni prima (e così sarà, purtroppo, anche per “Gioconda” e “Lucia”). Dirige sempre Tullio Serafin, lo “Scopritore” del fenomeno Callas. 

Riporto, alla lettera, perché condivido “in toto”, la opinione di Celletti, sempre basata sullo Spartito: ”la Callas appare in grave declino, ma sembra non tener conto né dell’ erosione del registro acuto (le note alte ballano tutte o quasi, paurosamente, e sono spesso urla laceranti), né della ridotta capacità di manovrare i fiati.” E conclude: “Così, malgrado le lacune vocali, tiene sempre in tensione il personaggio: è lì, cupa, aggressiva, tagliente, dalla prima all’ultima battuta, dolente sovrana che maschera, con il fraseggio sempre altero, perentorio, dominatore, le rovine del suo bel regno in disfacimento”. A soli 34 anni! 

Torno al film: tutti i personaggi che ruotano intorno alla Jolie, forse Favino a parte, che ha un certo peso rispetto alla realtà storica, sono molto rimpiccioliti, che si chiamino Serafin, Meneghini, Kennedy, Onassis ecc. Ci viene proposta la tesi, in senso strettamente lessicale, discutibile, da discutere, che tutti questi ricordi siano di una vita vissuta da un’ altra persona, ovvero un personaggio più che persona, la Callas che, molto correttamente già nella Anna Bolena, Primavera 1957 (32 anni), avverte grossi problemi nello “strumento”, purtroppo per lei notati da diverse altre persone. 

Ho molto apprezzato la scelta del regista di incorniciare il tutto con piccoli frammenti del suo repertorio vocale e più sostanziosi apporti da Ouvertures e Sinfonie da opere. A partire da Bellini fino a Wagner, nientemeno che “Parsifal”. Qualcuno potrebbe chiedersi cosa ci sta a fare Wagner in un film sulla Callas. A queste persone mi limito a ricordare che tra il 1948 e il 1952 la Callas (quando era la signora Maria Meneghini), cantò più volte a teatro Brunhilde in “Walchiria”, Isotta in “Tristano”, e addirittura Kundry in “Parsifal” a Roma (di cui esistono pure i nastri RAI contemporanei in studio). 

E non finisce qui: le avevano proposto di imparare il tedesco per cantare in originale questi ruoli (Monaco di Baviera? Francoforte? Vienna? Fino a Bayreuth?!).  E ci sono anche altre prove di repertorio tedesco; dal “Ratto del Serraglio ”al “Fidelio” e al “Don Giovanni”, e di nuovo alcuni ritorni wagneriani negli anni a seguire. Pensate: era stata Leonora in “Fidelio”, a 19 Anni, Atene sotto i tedeschi, 1944! Nel film il regista, pur velato ed elegante, fa un chiaro riferimento agli anni della guerra e alla “lotta per la sopravvivenza” con ufficiali occupanti, per lo più tedeschi, qualche italiano compreso. 

Comprendo tuttavia che una larga parte degli spettatori possano essere rimasti sorpresi da questa particolare “colonna sonora”. Non è detto che se vai a vedere un film sulla Callas devi per forza essere un profondo conoscitore del suo repertorio, nella maggior parte dei casi. Io ho gradito e apprezzato, molto. O il regista è un grande melomane, o, non lo fosse, per me ha fatto una scelta molto qualificante pur se, forse, poco popolare. 

Resta fermo il fatto che questo viaggio nei ricordi di Maria, l’ ho trovato coinvolgente a intermittenza, così come, a parte la figura regale della Jolie, con un impegno sincero ma anche qui dai risultati intermittenti (molti, forse troppi flashback, stimoli continui, a raffica!).

Molto su cui discutere! Forse ulteriori visioni potrebbero aiutare a capire e apprezzare meglio. 

Maria regale per gli enormi meriti musicali! Umanamente fragilissima per avere, anche per vanità, ceduto alle lusinghe di due diversi volponi (Serafin e Meneghini) che, imponendo in giovane età ruoli pesantissimi a ritmi quasi forsennati, sono riusciti in meno di 10 anni a spezzare uno strumento in origine smisurato. 

E, “Vanitas Vanitatum”, quella scelta scellerata, dopo i successi di “Sabrina” e “Vacanze Romane” 1953/4, di giocarsi quasi 30 chili in 2 anni inseguendo il mito della “bellezza grissino”, la Audrey Hepburn di Europa, che ha fatto rapidamente collassare il fiato sul diaframma, prima, la voce poco dopo. 

Atto ultimo: ancora, solo, sempre, il “personaggio” sui rotocalchi e nei media di allora, tolte rarissime eccezioni. Pirandellianamente...l’uomo...o la maschera? 

Domenico Maria Morace

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